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Artiterapie e linguaggi espressivi

 

L'Arteterapia prende le mosse da quella che per lungo tempo è stata considerata la psicopatologia dell'espressione che vedeva nella produzione grafica ed artistica del malato mentale l'espressione della sua patologia. Già nel 1877, Lombroso affermava che la follia sviluppa creatività perché lascia più libera la fantasia, dando luogo a creazioni che una mente troppo razionale non sarebbe in grado di produrre. In questa prospettiva, numerosi autori, seppur con toni diversi, hanno cercato  corrispondenze tra sintomi caratteristici delle sindromi cliniche ed espressioni artistiche: il segno grafico e figurativo ne doveva rappresentare l'equivalente; la creatività dei malati aveva così assunto carattere di specificità, una pecularietà connotata in senso prevalentemente patologico. Grandi nomi della psichiatria del 900 occupatisi di questo tema, criticarono fortemente la definizione di "arte patologica" e a partire dagli anni 20, L. Biswanger e H. Prinzorn, spostarono l'interesse sul processo di formazione dell'immagine, in un campo aperto al contributo estetico, psicologico ed antropologico, orientando l'osservatore "sul mondo interno", sull'urgenza del bisogno di espressione, sulla corrispondenza di forme ed affetti. Prinzhorn mirava ad ottenere un riconoscimento senza pregiudizi per le produzioni artistiche dei pazienti ed egli, oggi, ci appare in un certo modo il  precursore di quell'intendere l'arte come terapia, come processo aperto che enfatizza l'espressione spontanea, libera da vincoli direttivi e da connotazioni di stampo ergoterapico. Questo nuovo approccio diventerà fecondo grazie sia ad alcuni paradigmi dell'intervento psichiatrico, sia ai contributi che derivano dalla lettura psicoanalitica della creatività  e delle sue connessioni con la psicopatologia ed i processi di cura.
Singolare appare l'avventura artistica di Dubuffet, a metà degli anni  quaranta, dalla quale nasce, dopo un viaggio negli ospedali psichiatrici elvetici e in un clima culturale di rivolta anti-accademica e di critica anti-istituzionale, il paradigma dell'"Art Brut". In tale disegno, gli "irregolari", gli outsiders, sono posti al vertice di contraddizioni e conflitti che investono il mondo dell'arte e della società stessa, invitando ad una lettura delle opere in chiave antipsichiatrica. Per Dubuffet non esiste un'arte malata, la follia è concepita come molla dell'invenzione, diviene valore positivo, libero da condizionamenti che derivano dai modelli della tradizione. Prima di lui le avanguardie artistiche del novecento si erano accostate alle forme d'arte considerate esotiche e marginali: la triade – arte infantile, arte negra, arte dei malati mentali – divenne fonte di ispirazione in un periodo caratterizzato dalla ricerca di nuove forme espressive.
D'altra parte Pul Klee aveva pubblicato, già nel 1912, un articolo sulla rivista "Die Alpe", nel quale individuava nelle culture "altre", le sorgenti della creatività: l'articolo aveva  per certi versi l'obiettivo di rispondere a quella critica che giudicava infantile e malato il nuovo linguaggio espressivo delle avanguardie.
La storia degli artisti manicomiali è scandita dall'assenza dell'altro, di un interlocutore disponibile a cogliere nelle immagini un'apertura di senso, di un'attesa relazione (eccezione ne sono i noti casi di Vittorino Andreoli con Carlo, di Leo Navratil e degli artisti del Gugging). Scrive Andreoli: "… in quella atmosfera dantesca…era nato un piccolo laboratorio", "…non c'erano alla base né una grande intuizione né grandi ideologie; c'era qualche matto come Carlo che usando alcuni pezzi di mattone che trovava per terra si era messo a fare dei segni…" "…Molti di noi, però, credevano che dentro alla follia ci fossero delle possibilità creative…"
Negli anni sessanta Franco Basaglia attaccando l'industrializzazione del mondo del delirio, che faceva apparire oggetti-linguaggi faticosamente costruiti, come oggetti vuoti e assurdi che non possono parlare a chi non ne conosce il linguaggio, sottolineava il valore terapeutico dell'arte e l'irriducibilità dell'incontro con il malato attraverso l'opera.
Le finalità dell'arte come terapia si cominciano a definire a partire dagli anni settanta: il cambiamento del paziente, la sua individuazione attraverso un rapporto terapeutico che ha una struttura e dei tempi precisi, lo svolgimento dell'attività all'interno di una relazione con una figura di riferimento. Non dimentichiamo, inoltre, che il progetto di de-istituzionalizzazione implicito nella Legge 180/78, nonostante trovasse il personale impreparato a un impresa così ardua da affrontare in così poco tempo,  generò l'idea della necessità di creare un clima vitale al cui interno potessero circolare fantasie, progetti, speranze che contrastassero la tendenza alla stasi, all'immobilità e all'indifferenziazione. Vennero così proposte agli "ospiti" figure quali il movimento, il ritmo, lo spazio e il tempo che l'esperienza manicomiale aveva coartato in maniera inesorabile.
Arteterapia, Musicoterapia, Danzaterapia, Teatroterapia, formano stabilmente il panorama italiano delle "Artiterapie", differendo tra  loro per il diverso medium artistico utilizzato : pittura-scultura, suono-musica, movimento-danza, rappresentazione come transizione.I vari linguaggi creativi, implicano l'impiego di differenti canali sensoriali, percettivi ed espressivi e vengono proposti all'utenza a scopo terapeutico, riabilitativo, preventivo.
L'espressione "Artiterapie", usata fino a non molto tempo fa per numerose operazioni e tentativi d'identità professionale, ha precisato negli ultimi anni sia gli ambiti applicativi, sia i programmi di formazione delle varie scuole in termini qualitativi. Negli ultimi anni sia il Comitato Italiano per le Arti Terapie (CIXAT) che l'Associazione Italiana per lo studio della Comunicazione Non Verbale (AICNV), hanno compiuto notevoli sforzi per unificare i professionisti, i termini ed i concetti guida di queste nuove discipline che, figlie delle arti e della terapia, hanno generato sicuramente cultura ma anche molta confusione. L'obiettivo è quello di chiarire il ruolo professionale dei terapeuti artistici e precisare cosa renda terapeutico l'intervento con i codici espressivi, in modo che risulti essere utile e curativo per soggetti in difficoltà.
Le terapie artistiche sono nate in Italia nella vita quotidiana dei servizi e si sono sviluppate alla base, direttamente con l'utenza, piuttosto che da un modello teorico generale, condiviso e verificato o da decisioni istituzionali. E d'altra parte tale figura professionale non è facilmente spendibile poiché non facilmente definibile è la sua identità professionale e ancor più difficoltosa è la descrizione di un'attività che per lo più fa riferimento ad un contesto non verbale. Ciò ha portato da un lato, ad assimilare la figura dell'Arteterapeuta con quella dell'animatore mentre dall'altro, ha messo la categoria nelle condizioni di essere flessibile ad ogni costo, per una sorta di incomunicabilità che spesso traspare nei rapporti con i responsabili dei servizi. Dai dati di un questionario proposto dal CIXAT agli operatori del settore,  emerge per esempio il fatto che solo una bassa percentuale ha conseguito una formazione "canonica", gli altri hanno vagato da un corso all'altro, unendo diverse competenze per lo più in maniera creativa. La supervisione non è comunemente acquisita e spesso è esperita con figure professionali che nulla hanno a vedere con il codice ed il linguaggio artistico. Resta la convinzione che ci vorrà del tempo perché il concetto che la supervisione specifica va fatta con arteterapeuti esperti, legati al mondo della clinica, venga acquisito.
Proponiamo alcune discriminanti che permettono di distinguere figure ed esperienze che possono essere considerate terapeutiche:
a) Formazione clinica, fondata su una base artistica professionale o semiprofessionale.
b) Esistenza di un modello di riferimento che regoli l'inquadramento diagnostico, la presa in carico, la programmazione e la valutazione degli esiti.
c) Esistenza di un'equipe multidisciplinare di appoggio e verifica del trattamento.
d) Supervisione.
Se ne deduce che l'Arteterapia non costituisce un momento occupazionale o ludico ma proprio per l'attinenza che il prodotto artistico ha con i processi creativi e simbolici, per la sua capacità di attingere ai movimenti inconsci e per la qualità della relazione che l'arteterapeuta stabilisce con il paziente, essa costituisce un momento essenziale e significativo nel quadro del progetto terapeutico. Prevede quindi, come per la terapia tradizionale, un particolare setting, stabile e continuativo, all'interno del quale il comportamento, la produzione artistica, l'espressione corporea e verbale, vanno considerate in funzione del processo e delle dinamiche in atto. In esso si attua il potenziale della creatività dell'utente che, attraverso la relazione terapeutica, può assumere uno stato iniziale regressivo, di révérie creativa, simile al sogno e al gioco. Ne possono emergere prodotti ricchi di contenuti profondi, pulsionali ed affettivi, il cui linguaggio simbolico li rende accessibili e socialmente accettabili: le emozioni, seppure intense, vengono dominate dall'esperienza estetica, intesa come esperienza emozionale e globale.
Fondamentale appare il passaggio verso l'autopercezione che proviene all'utente dal rimando del suo prodotto artistico e l'autoconoscenza inerente a quanto prodotto, che favorisce nel soggetto la percezione del sé.
In Italia la diffusione delle artiterapie ha interessato per alcuni anni solo alcune regioni del nord, Lombardia, Piemonte e Liguria, seguite da Emilia Romagna e Toscana, più recentemente Veneto e Friuli. Molti dei laboratori espressivi avviati con la progressiva territorializzazione dei servizi hanno assunto la connotazione di botteghe d'arte e di laboratori artigianali, di compagnie teatrali con annesse esibizioni pubbliche, mostre e spettacoli. Ciò con il senso appunto di "esibire" piuttosto che "socializzare" il prodotto artistico. Inoltre, spesso le attività espressive sono state determinate, piuttosto che dalle esigenze degli utenti, dalla presenza di un operatore volenteroso esperto in un settore artistico o da qualche volontario e l'invio di un utente piuttosto che un altro, si basa per lo più su una supposta "predisposizione" del soggetto, spesso frutto di pregiudizio.
Nonostante nell'attuale realtà  il termine arteterapia evochi un'ampia libertà di scelta, nel senso che appare un po' come un concetto/contenitore entro il quale confluiscono svariate esperienze che enfatizzano in misura diversa il polo estetico rispetto a quello terapeutico, tuttavia negli ultimi anni appare più evidente che  questa disciplina non è né una forma di pedagogia mediata dall'arte, né un insieme di tecniche finalizzate all'apprendimento. L'arteterapia si configura  sempre più come un campo d'esperienza entro il quale materiali e tecniche hanno lo scopo di facilitare l'espressione di emozioni, di rappresentare stati della mente, di ampliare lo spazio intersoggettivo.
I presupposti per l'utilizzo clinico dell'arteterapia risiedono nell'attenzione costante alla relazione e alle dinamiche che la regolano piuttosto che ad un personale giudizio estetico, nella tutela della libertà espressiva con la sua necessaria quota d'imprevedibilità.

 

Sandra Masci