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Busoni e Liszt, cronaca di un'utopia

 

A voler essere pignoli, Busoni incontrò per la prima volta Liszt ancora prima di nascere, quando sua madre ottenne da quest'ultimo un'audizione privata: era già incinta e il piccolo Ferruccio sarebbe nato appena cinque settimane dopo.
Tempo una decina d'anni e il pargolo era già diventato un pianista completo, pronto per esordire sul palco della Sala Bösendorfer a Vienna. Qui si iscrisse di malavoglia al Conservatorio e vi passò due semestri di studio. Tra i grandi musicisti che ebbe modo di conoscere, riapparve anche il vecchio Liszt, sceso a Vienna per celebrare il cinquantenario della morte di Beethoven. Busoni suonò per lui e ricevette complimenti molto lusinghieri, ma rimase alquanto deluso dagli atteggiamenti plateali del pianismo lisztiano che al suo precoce spirito critico sapevano troppo di esibizionismo. Non poteva allora certo sospettare che la riscoperta dell'opera di Liszt lo avrebbe salvato da una crisi profonda, rivelandogli, a fianco del sempre presente Bach, la via della sua definitiva maturazione d'artista.
La crisi lo colse intorno ai venticinque anni. Trasferitosi con la moglie negli Stati Uniti, era diventato ovunque conosciutissimo e ricercato come virtuoso dello strumento. Di per sé nulla di male, non fosse che l'innata vocazione alla composizione mal si accordava con la vita da "cavallo da circo" che conduceva. La musica di Liszt arrivò come una folgorazione e sanò questo dissidio riconciliando la figura del pianista e quella del musicista creatore.
Ai nuovi occhi di Busoni, Liszt non era più il campione dell'individualismo romantico, ma al contrario il grande profeta di verità oggettive, l'artista capace, attraverso lo sfruttamento di tutte le possibilità espressive del pianoforte, di attingere a quel livello di assolutezza della musica appannaggio esclusivo dei classici. Così Busoni fece suo il "pensiero pianisticamente trasformatorio" di Liszt e lo eresse a fondamento della sua poetica.
Come prima cosa cambiò il suo modo di suonare: "Non suono quasi più con le mani", dirà. Lo stile oggettivo e analitico si era trasformato in un virtuosismo smaterializzato che dava agli ascoltatori l'impressione di raggiungere senza mediazioni l'idea compositiva all'origine del brano.
Parallelamente, cominciò a trascrivere e a curare nuove revisioni di musiche del passato, da Bach a Liszt, con uno spirito di devozione e un impegno che rimasero costanti per tutta la sua vita. Questa attività fu una logica conseguenza del suo rinnovato credo estetico: adeguando le partiture classiche alle attuali conquiste tecniche e linguistiche ne aveva fatto rivivere lo spirito, liberandolo dalla pagina scritta.
Messa così in pratica l'idea che la musica fosse un immenso patrimonio bisognoso di una continua opera di ricreazione, nella doppia veste di pianista e trascrittore Busoni era riuscito ad assolvere il suo compito di artista. Ora si trattava di applicare tutto questo anche al compositore, dando nuova voce non più soltanto alle verità assolute depositate nella Storia, ma anche a quelle infinite melodie che secondo la sua immagine aleggiano ancora nascoste nel cosmo.
Qui, l'idealista Busoni si arenò di fronte alle evidenze della realtà: la via dello sperimentalismo linguistico che decise di imboccare per raggiungere l'iperuranio della musica non lo avrebbe condotto alle certezze incorruttibili che cercava. Infatti, lungi dall'essere segno di vitalità, l'ampliamento vertiginoso degli orizzonti musicali era in realtà il sintomo più chiaro della disgregazione degli ideali umanistici che, perso il loro potere unificante, avevano ormai abbandonato il linguaggio a quel processo di dissoluzione di cui tutto il Novecento sarà testimone e artefice. Così, attirato da un lato dai nuovi sviluppi delle avanguardie e dall'altro ancora illuso della possibilità di una parola definitiva, Busoni si ritrovò condannato all'inattualità: giudicò un tradimento del compito universale dell'arte sia la riduzione alla dimensione artigianale dei neoclassici, sia l'esasperata interiorità dell'espressionismo e non volle per nulla al mondo scalzare la musica dal piedistallo su cui l'aveva innalzata il secolo passato.
Una musica eterogenea quanto poche altre, destinata all'incompiutezza dall'irraggiungibile meta che si era proposta; una musica senza timbri, sorretta da gigantesche costruzioni contrappuntistiche e immersa nella luce accecante e senza colori di un mondo metafisico: questo ciò che resta a testimonianza della grande sfida di una vita che fu per Busoni l'utopia della classicità.

 

Alberto Bosco (da www.sistemamusica.it)