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Eric Clapton

 

Nella metà degli anni '60 sui muri di Londra apparivano scritte che dicevano "Clapton is God". Erano gli anni del massimo fulgore virtuosistico di questo talento assoluto della chitarra elettrica, capace come pochi altri di trasmettere feeling ed emozioni dalla sua sei corde. Poi è arrivato Jimi Hendrix e le cose sono cambiate, il ruolo di Eric Clapton, all'interno del Gotha dei "guitar eroes" è stato scalzato dall'irruenza visionaria dell'indiano metropolitano Jimi, ma questa è un'altra storia.
Eric Patrick Clapp nasce il 30 aprile 1945 a Ripley, nel Surrey. Figlio illegittimo, sono i nonni con cui vive a regalargli a quattordici anni la prima chitarra. Subito catturato dal nuovo strumento, fra l'altro elettrificato in definitiva solo da qualche anno, inizia a riprodurre nota per nota i 78 giri di blues che circolano per casa.
Nel 1963 fonda il primo gruppo, i "Roosters", ed è già blues a 24 carati. Pochi mesi dopo è con "Casey Jones And The Engineers" e poi con gli "Yardbirds", che lo arruolano al posto di Top Topham. Nei due anni che resta con il gruppo guadagna l'appellativo "Slowhand" e approfondisce il suono dei tre King - B.B., Freddie e Albert - come quello di Muddy Waters e Robert Johnson.
Nel 1965, dopo l'hit "For your love", viene chiamato da John Mayall nei "Bluesbreakers", una proposta che Clapton accetta di corsa, attirato dall'interesse per il blues lontano dalle tentazioni pop in cui stavano cadendo le altre sue esperienze musicali. Con John Mayall c'è solo lo spazio di un album, ma si tratta davvero di un grande album. La ricerca ansiosa dei compagni ideali lo spinge quello stesso anno a formare i "Cream" con il batterista Ginger Baker e il bassista Jack Bruce. Anche nell'approccio decisamente rock di uno dei primi e più influenti supergruppi della storia del rock, gli standard blues trovano un posto rilevante: è il caso di "Rollin' and umblin'" di Willie Hambone Newbern, "Born under a bad sign" di Albert King, "Spoonful" di Willie Dixon, "I'm so glad" di Skip James e "Crossroads" di Robert Johnson.
Il successo è enorme, ma forse non viene gestito al meglio dai tre. Che, travolti dal loro ego gonfiato, presto arrivano a maturare insanabili dissapori e dunque a sciogliersi già nel 1968.
Di nuovo sul mercato con la sua Fender in spalla, Clapton è alla ricerca di altri compagni di avventura. Arriva allora un altro supergruppo, ancora più effimero, con i Blind Faith al fianco di Steve Winwood, poi la Plastic Ono Band di John Lennon e la trasferta americana in tour con Delaney & Bonnie. In realtà quello che passa alla storia come il suo primo album solista ("Eric Clapton", pubblicato dalla Polydor nel 1970), risente ancora molto dell'esperienza con la coppia Bramlett, dato che "Slowhand" usa il loro gruppo e scrive buona parte dei brani con Delaney Bramlett. L'esordio ha un sound R&B spruzzato di gospel indubbiamente lontano da quello che il musicista ha proposto fino a quel momento.
Chi pensasse che Eric Clapton, a quel punto, fosse soddisfatto si sbaglierebbe di grosso. Non solo le collaborazioni e i gruppi a cui partecipa aumentano in modo vertiginoso, ma deve anche intraprendere una dura battaglia contro l'eroina, un vizio che lo stava portando alla rovina (per soddisfare gli spacciatori aveva addirittura impegnato le sue preziose chitarre).
Sull'orlo della catastrofe ha il buon senso di tirare i remi in barca e di rimanere fermo per un paio di anni.
Il 13 gennaio 1973 Pete Townshend e Steve Winwood organizzano un concerto per riportarlo sul palco. Nasce così, quasi fosse un benefit, l'album "Eric Clapton's Rainbow Concert", accolto tiepidamente dalla critica dell'epoca. La carriera ad ogni modo riprende e, nonostante i problemi di droga non siano ancora del tutto accantonati, arriva per lui un successo enorme, seguito da altri album memorabili. Passata la sbornia di notorietà e vendite alle stelle, dietro l'angolo però lo aspetta un altro fallimento, determinato da scelte stilistiche alla lunga non apprezzate dal pubblico.
Ci riprova nel 1976 con Dylan e The Band: l'abbinamento funziona e lui torna ad essere la stella che era. Da qui in poi la strada di "Manolenta" è lastricata d'oro, anche se percorsa dai soliti alti e bassi. Più bassi che alti, per la verità. Tanto per fare qualche esempio dischi come "Backless" del 1978, "Another Ticket" del 1981, "Behind the sun" del 1985, "August" del 1986 e "Journeyman" del 1989 sono da dimenticare.
Altro discorso per "Money and cigarettes" del 1983, ma giusto per sentire assieme le chitarre di Eric Clapton e di Ry Cooder (con l'aggiunta di quella meno nota ma altrettanto abile di Albert Lee).
Dal vivo salta fuori il talento, come dimostra il doppio "Just one night" del 1980, ma nemmeno il palco è una garanzia (sentire per credere "24 Nights" del 1991). Il periodo è comunque ricchissimo di soldi, indossatrici, coca-party e disgrazie (la tragica morte del figlio di due anni, avuto da una relazione con Lory Del Santo, a New York).
Arrivano anche le colonne sonore: se "Homeboy" del 1989 annoia come l'omonimo film con Mickey Rourke, nel 1992 "Rush" comprende due brani che segnalano che l'elettroencefalogramma non è piatto: bellissime e indimenticabili sono "Tears in heaven", ballata autobiografica dedicata al figlio scomparso, e "Don't know wich way to go" di Willie Dixon in una versione senza risparmio.
Intanto quello che avrebbe dovuto essere un passaggio di consegne a Stevie Ray Vaughan non avviene (Clapton si esibisce con l'altro grande della chitarra proprio la notte in cui il texano perde la vita in elicottero) e Clapton trova nuovi stimoli con il disco "Unplugged" del 1992, acustico live per MTV e rilettura sincera della propria carriera (che in parte restituisce Clapton al suo primo amore, il blues).
Rincuorato, nel 1994 Eric Clapton entra in studio con un gruppo fidato e incide in presa diretta (o quasi) una sequenza bruciante di sedici classici del blues di mostri sacri come Howlin' Wolf, Leroy Carr, Muddy Waters, Lowell Fulson e altri. Il risultato è il commovente "From the cradle", virtuale torta con candeline per i suoi trent'anni di carriera. Per quanto possa sembrare incredibile questo è anche il primo disco di Clapton interamente e dichiaratamente blues. Il risultato è eccezionale: anche i puristi devono ricredersi e togliersi il cappello.
Oggi "Slowhand" è una superstar elegante e plurimiliardaria. Dal blues ha sicuramente ricevuto moltissimo, più della grande maggioranza di coloro che l'hanno inventato. Ma, almeno indirettamente, è stato proprio lui a far riscoprire alcuni grandi interpreti della prima ora che erano caduti nell'oblio. E praticamente tutti i chitarristi bianchi che suonano blues hanno, prima o poi, dovuto confrontarsi con il suo suono personale e riconoscibilissimo. Certo la sua discografia non brilla di perle blues e la sua vita da rockstar non predispone sempre ad una critica benevola. Senza dubbio però Eric "Slowhand" Clapton il suo posto tra i grandissimi, se lo merita.