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Frank Zappa: rock come prassi compositiva

 

1. Idraulica.
Quando la guarnizione di un rubinetto perde, lo scienziato si interroga sui fattori che determinano il degrado dell'elasticità della gomma, l'ingegnere pensa a un sistema di tenuta stagna alternativa, l'idraulico cerca una guarnizione nuova e sostituisce quella consumata.
Storielle del genere circolano numerose per il mondo.
Anche in campo musicale ne potrebbero circolare tantissime se i musicisti non fossero una delle categorie con il senso dell'humour meno sviluppato. Sarebbe un bene se storielle del genere circolassero abitualmente, soprattutto in Europa e specie negli ambienti dove si elabora la ricerca musicale di matrice colta. Invece niente.
Diciamo che l'odierno compositore di formazione accademica ragiona da scienziato, o al massimo qualche volta da ingegnere. Sono menti spesso geniali e altrettanto spesso frustrate, per l'ardua materia che si trovano ad affrontare. Tuttavia, se appena usciamo fuori dal recinto, il mondo della musica è popolato da indaffaratissimi idraulici. Essi sfornano rubinetti dalle fogge più diverse, a volte rudimentali, ma che di solito svolgono perfettamente il loro compito, senza perdere una goccia.
Probabilmente, fra gli idraulici dell'ultimo mezzo secolo, Frank Zappa non ha uguali, artefice di una rubinetteria musicale additata da molti come inimitabile. La storiella dell'idraulico vuole mettere a fuoco i termini di un confronto che in campo musicale nel corso del XX secolo si è fatto arroventato. Non si tratta tanto del confronto fra accademismo e vocazione sperimentale, bensì di una divisione che passa fra una visione eminentemente pragmatica che cerca la sua giustificazione nel risultato e un'altra di natura squisitamente intellettuale che cerca la sua giustificazione nelle premesse teoriche. È sicuramente troppo semplicistico sia ridurre questo confronto al dualismo Usa-Vecchio continente, sia vedervi l'equivalente del confronto fra accademismo e popular culture.
Tuttavia è indubbio che in questo secolo (e anche nel precedente) l'arte e la musica degli Stati Uniti nelle sue espressioni più radicali - da Cowell e Ives, fino a Zappa - sono segnate da un pragmatismo di fondo ("se funziona, vale") che si contrappone in modo pressoché inconciliabile all'atteggiamento europeo, figlio a sua volta dell'idealismo e del pensiero dialettico, ovvero di quel retaggio che può dirsi ancora preponderante nel campo della musica e della musicologia accademica. E poiché il sapere musicale eurocolto continua ad esercitare un monopolio pressoché incontrastato nel campo degli studi scientifici ed estetici riguardanti la musica, ecco che gli strumenti conoscitivi a nostra disposizione, nel momento in cui affrontiamo un terreno musicale estraneo a quello della musica dotta europea, tradiscono tutta la loro imbarazzante e anacronistica inadeguatezza.
Ma la contrapposizione Usa vs Europa è soltanto un aspetto di una deriva storica e culturale più generale che ha condotto al crollo di un modello culturale (e sociale) dominato da un centro depositario di un sapere unico e indiscusso. Una delle manifestazioni più appariscenti di tale rivolgimento è senza dubbio l'affermarsi nell'età mediatica di un universo musicale totalmente altro rispetto alla tradizione colta, la cosiddetta popular music, una definizione che per quanto inadeguata ne sottolinea il carattere antagonistico rispetto al sapere musicale che per secoli ha esercitato un'egemonia incontrastata.
La sua natura congenitamente antiaccademica e il fatto di essere fortemente indebitata con la cultura e la mentalità anglosassone e in particolare statunitense rendono la musica popular - o almeno la parte più combattiva di essa - decisamente recalcitrante a farsi incasellare nelle categorie e nel sistema di valori coniati da un sapere vetusto, al quale non si riconosce quasi più nessuna autorità e che, in effetti, su questo terreno mostra una clamorosa sindrome da invecchiamento. Di fatto il problema di istituire una disciplina che abbia un carattere scientifico, ossia verificabile e produttore di sviluppi ulteriori, per lo studio, l'analisi e la comprensione della musica popular rappresenta oggi uno dei problemi cruciali della musicologia. Si tratta di un campo di studi che vanta già una letteratura ponderosa, eppure esso continua ad essere oggetto di controversie, riassumibili in una battuta che è diventata una sorta di slogan: "Rockologists go home".
Eppure la via d'uscita è una sola e obbligata. C'è un rifiuto piuttosto marcato da parte dei musicisti, degli appassionati e dei consumatori di rock e di pop music - giovani e meno giovani - verso un approccio scientificizzante o umanistico alla loro musica. "Lasciateci godere in pace la nostra musica senza imporci masturbazioni intellettuali". È in questi termini che il popolo del rock e degli aficionados sembra ribattere a chi si propone loro in veste di musicologo o di esegeta della pop music. In effetti l'approccio musicologico ha, per forza di cose, più di un tratto in comune con quello stesso modello di sapere accademico con il quale le nuove culture e sottoculture musicali si sono trovate in conflitto e che, per parte sua, ha bollato la musica popular e la sua egemonia come emblema di incultura e come segno del degrado della civiltà musicale.
Si può idealizzare questo rifiuto e affezionarsi ad esso come scelta di purezza, in nome di un'etica "anti-establishment". Ma in realtà perpetuare questo rifiuto significa cadere in una trappola, significa cioè vanificare un processo di emancipazione culturale che è vitale per la sopravvivenza, la crescita e il rinnovamento di qualsiasi linguaggio, etnìa o espressione artistica. Per affermare la propria identità, per radicarsi in un territorio, per dare valore alle proprie ragioni o per affrontare la sfida del mercato è necessaria una forza il cui fondamento è culturale. In altre parole, se non si vuole più transitare attraverso la legittimazione dall'alto, concessa da un'élite intellettuale invecchiata, è indispensabile dotarsi di un sapere fondato su basi autonome. E solide.
È a questo punto, arrivando al nostro argomento, che ci si para davanti la figura di Frank Zappa, con la sua levatura artistica indiscutibile abbinata a un sornione understatement intellettuale, con la sua produzione musicale sterminata e originalissima, la sua eticità inflessibile in materia di arte e di vita, il suo pragmatismo antidogmatico, la sua critica sociale impietosa, il suo illuminismo disincantato spinto fino al cinismo, la sua consapevolezza circa i meccanismi del mercato e dei mass media e, infine, la sua impressionante competenza in materia di mezzi linguistici e di tecnologie applicate al lavoro compositivo.
Per varie ragioni Frank Zappa e la sua musica sono sempre stati decisamente recalcitranti a farsi interpretare da altri che non fosse il suo autore, il quale nelle numerose interviste, alcune davvero torrenziali, ha cercato di arginare le conseguenze di una nutrita letteratura fonte non di rado di fraintendimenti e deformazioni. In queste stesse interviste Zappa ha offerto cospicue e illuminanti indicazioni in merito alla sua formazione, alle sue idee e alla sua attività di musicista e compositore. Ma come sempre, quando si tratta di musica, le parole non bastano. La musica dice infinitamente di più. E tuttavia il porsi davanti alla musica di Frank Zappa per indagarne la sostanza musicale, il pensiero che la sorregge, le implicazioni che da essa derivano è un'impresa non solo difficile, ma al limite del paradossale a causa della sua costituzione e collocazione assolutamente atipiche nel panorama musicale contemporaneo.
2. Oralità e scrittura.
A un primo sguardo Zappa appare come un musicista rock con ambizioni colte: è una fisionomia a dire il vero non molto originale, che sembrerebbe apparentarlo con numerose altre figure della pop music, in una galleria variegatissima che va da Brian Eno a Keith Emerson, da Paul Mc Cartney a Franco Battiato.
Nel caso di Zappa le cose stanno invece molto diversamente. Di fatto, Frank Zappa è un compositore autodidatta la cui carriera si è snodata lungo una strada a molte corsie: la pratica compositiva scritta, la stesura dei testi e dei progetti drammaturgici, il lavoro con il Synclavier, l'attività come chitarrista e leader della propria rock band, l'attività in studio relativa alla sua produzione discografica, nonché all'analisi e alla catalogazione dei materiali registrati dal vivo, fonti, a loro volta, di ulteriori idee per la realizzazione di nuove composizioni.
In sostanza il lavoro creativo di Zappa si è articolato come un tutto organico e conseguente lungo percorsi e pratiche strettamente intrecciati fra loro che si sono arricchiti vicendevolmente delle esperienze maturate dal musicista nei diversi ambiti della propria attività. C'è però, come si diceva, un aspetto paradossale che a tutt'oggi non cessa di produrre conseguenze singolari. La gran parte della produzione musicale di Zappa nota al pubblico, calcolando anche le differenti versioni del medesimo titolo, assomma ad almeno 1200 brani registrati, raccolti in oltre sessanta album pubblicati direttamente, più una ventina di album autorizzati.
Questa produzione è affidata a una pratica di gruppo che, in linea con la tradizione esecutiva del rock e del jazz, concede largo spazio all'improvvisazione. Si tratta dunque di un corpus che per la maggior parte documenta performances avvenute in studio o in concerto; esecuzioni che hanno carattere di unicità in quanto la stesura scritta non restituisce - salvo casi eccezionali - le parti improvvisate.
Fin qui, pur tenendo conto del fatto che Zappa anche durante le tournées concertistiche era solito dedicare molto tempo alla realizzazione di nuovi arrangiamenti dei brani compresi nel repertorio della band, non c'è nulla di particolare rispetto a consuetudini ampiamente consolidate sia nel jazz sia nel rock. Una composizione, sia vocale o strumentale, viene redatta in una prima stesura il cui scheletro - formato dalla linea melodica e dalla struttura armonica (ossia gli elementi che figurano nel Real Book e nelle varie raccolte antologiche di musica jazz e pop destinate alla pratica strumentale) - è pensato in funzione di ulteriori arrangiamenti o versioni che, in sede di performance, verranno poi integrati con interventi improvvisati variamente pianificati, ma ovviamente non scritti.
Questa prassi esecutiva tipica del jazz, del rhythm & blues, del rock e di molti altri generi popular vive dunque la propria realtà nel concerto di fronte al pubblico, oppure in studio e approda infine alla registrazione che costituisce la realizzazione compiuta dell'opera. Sempre più spesso, di pari passo con il potenziarsi e il perfezionarsi della tecnologia della post-produzione (ossia il lavoro musicale condotto in studio alla consolle) la registrazione posta in commercio non corrisponde a nessuna esecuzione effettivamente avvenuta, bensì rappresenta un mosaico più o meno abile e complesso ricavato da numerose esecuzioni dello stesso brano.
Gli ultimi album dal vivo pubblicati da Zappa e registrati nel 1988 nel corso della sua ultima lunga tournée sono per l'appunto realizzati mediante questa tecnica di assemblaggio spinta ad autentici livelli di virtuosismo ingegneristico.
La prassi della musica improvvisata, ripristinata in questo secolo su larga scala grazie al jazz e al rock e ulteriormente incrementata dall'apparentamento sempre più forte di questi generi musicali con tradizioni musicali folkloriche ed extraeuropee portatrici di una millenaria tradizione orale e improvvisativa, ha determinato una trasformazione profonda rispetto alla tradizione moderna della musica occidentale. L'identità dell'opera si manifesta nella performance e nella sua eventuale registrazione. Al contrario la tradizione dotta individua invece l'identità dell'opera nella pagina musicale scritta, in quanto espressione piena e compiuta della volontà dell'autore cui l'esecuzione cerca di avvicinarsi il più possibile.
Il retrocedere della pagina musicale scritta a mero supporto o canovaccio non è una rivoluzione. È semplicemente il ricondurre la formulazione scritta della musica al ruolo che essa aveva in passato, dal Medioevo all'età barocca, quando all'interprete era richiesta una competenza improvvisativa capace di realizzare nel modo più brillante i suggerimenti contenuti nel canovaccio scritto. Tuttavia l'improvvisazione, una volta fissata su suppporto sonoro e quindi riascoltabile all'infinito, ha determinato il sorgere di una nuova prassi: quella della trascrizione, motivata dalla volontà di tradurre graficamente nel modo più esatto possibile lo svolgimento della performance, comprese ovviamente le improvvisazioni.
È evidente che questo tragitto dalla musica eseguita alla musica trascritta - anche se non mancano precedenti di questa pratica nella storia musicale del passato - inverte clamorosamente la direzione di marcia che negli ultimi secoli è stata predominante nella prassi musicale d'Occidente: anziché leggere la pagina per tradurla in evento sonoro, si legge l'evento sonoro per trascriverlo in pagina. In questa veste derivativa, la pagina ha evidentemente un ruolo accessorio che, nonostante possa risultare utilissimo e persino indispensabile qualora si voglia riprodurre alla lettera una determinata interpretazione, rimane congenitamente secondario rispetto al livello primario identificabile nella composizione in quanto realtà sonora.
In questo gioco, in questa dialettica sottile e complessa che si instaura fra cultura della musica scritta e cultura della performance c'è il nocciolo della trasformazione musicale avviatasi da circa un secolo a questa parte. È una trasformazione profonda che interessa non solo la musica, ma l'intero sistema culturale della nostra epoca. In altre parole, la musica partecipa di quel generale mutamento storico e culturale individuato da Walter Ong in Orality and Literacye riassunto in quella nozione di "oralità secondaria" che nell'epoca dei mass media caratterizza i fenomeni della comunicazione e dell'acculturazione a diversi livelli.
Al di là dunque delle tradizionali partizioni gerarchiche operate su base sociologica ed estetica, fra musica colta e musica di massa, fra musica "alta" e musica "bassa", arte e entertainment, da generazioni la musica del nostro secolo è sottoposta a un vistoso processo di ridimensionamento del pensiero musicale modellato sulla scrittura e mediato da essa, in favore di una pratica e di un pensiero che si fondano invece sull'ascolto e sulla performance, e che riabilitano come motore primario del fare musicale la competenza uditiva.
Le differenze riscontrabili sul piano dell'organizzazione linguistica fra galassia popular e universo colto sono solo le conseguenze di questo mutamento di lungo periodo innescato dalla tecnologia della riproduzione sonora e della sua manipolazione. A sua volta, la riabilitazione dell'orecchio e della sua capacità di produrre musica in tempo reale, richiama in gioco e mette in grande evidenza quella tradizione orale della musica che in Occidente è rimasta per secoli schiacciata dall'egemonia del segno scritto, ma che presso le civiltà musicali extraeuropee, così come nella cultura popolare e folklorica d'Occidente, ha conservato un ruolo centrale e inamovibile.
3. Present-day composer(s).
Lo sgretolarsi dei tradizionali confini fra pratiche musicali popular e pratica colta come non più pertinenti, il sovrapporsi e l'integrarsi fino alla simbiosi fra competenza esecutiva e improvvisativa, tecnologia della scrittura, tecnologia audio, il loro ridefinirsi in un coacervo linguistico e operativo estremamente complesso e stratificato, traccia l'identikit forse più pregnante e fecondo di Frank Zappa musicista e compositore, definendone il ruolo chiave nella vicenda musicale del XX secolo, la sua ineguagliata capacità di interpretare questo mutamento sostanziale e di portarne alla luce le implicazioni, facendone la base della sua pratica artistica.
In questi termini la celeberrima citazione di Edgar Varèse che Zappa propone nelle note di copertina del suo primo album, Freak Out! acquista uno spessore e un significato decisivi. La citazione è in realtà inesatta. Si tratta con ogni probabilità di una svista, poiché è piuttosto cervellotico pensare che Zappa abbia voluto consapevolmente cambiare il senso di questa massima formulata dal suo compositore prediletto. Su Freak Out! si legge "The present-day composer refuses to die", mentre la frase originaria di Varèse, contenuta nel manifesto costitutivo della International Composer's Guild (1921) è al plurale: "The present-day composers refuse to die". Ben Watson nel suo monumentale quanto controverso The Negative Dialectics of Poodle Play, riconduce questa alterazione alla forte pronuncia individualista di Frank Zappa. Tale individualismo in materia di creazione e composizione, nel quale traspare anche una risoluta intraprendenza pionieristica, è un atteggiamento ben noto del "Duke of Prunes".
Eppure - e una volta di più ci si trova a dissentire dalle conclusioni di Watson - quel volgere al singolare la frase significa, al contrario, darle un senso più universale alla luce di una consapevolezza profonda che lo Zappa ventiseienne aveva già ben chiara in testa.
L'arte del comporre così come esemplificata dalla pratica accademica novecentesca mostrava già allora segni manifesti di involuzione. Con quella citazione Zappa si pone esplicitamente fra quanti cercano di trovare una personale via d'uscita da questa agonia, in quanto si considera egli stesso compositore. È significativo a questo proposito il fatto che l'ultimo brano di Freak Out!, The Return of the Son of Monster Magnet, si rifaccia in modo apertamente parodistico al Sacre du Printemps di Stravinskij. E rivelatrice è, altresì, la lista di nomi spropositatamente lunga che Zappa elenca all'interno della copertina. Sono ben 179 nominativi a proposito dei quali si dice: "Queste persone hanno contribuito in molti modi a rendere la nostra musica quello che è". Accanto a nomi di amici o di perfetti sconosciuti, figurano personaggi della cronaca o dello spettacolo (Lenny Bruce, Sacco & Vanzetti, John Wayne), artisti e scrittori (Dalì, James Joyce), pochissime star del pop-rock (Dylan, Joan Baez, Presley), una nutrita schiera di bluesmen neri, una scelta molto oculata di jazzisti (Charlie Mingus, Roland Kirk, Eric, Dolphy, Cecil Taylor, Bill Evans). Ma la rappresentanza più cospicua, e non solo numericamente, è quella dei compositori di area colta, fra i quali figurano Schoenberg, Revueltas, Nono, Boulez, Webern, Stravinskij, Alois Hába, Varèse, Stockhausen, Session, Ives, Kagel. Siamo nel 1966. Nel 1963 Zappa aveva iniziato a pubblicare in proprio le sue composizioni: la sua casa editrice si chiamava Aleatory Music.
Il contesto in cui questi nomi si inseriscono è un'apoteosi della freak culture più provocatoria e irriducibilmente antiborghese, il che dà all'esibizione di queste credenziali un tono corrosivo e paradossale. Eppure esse denotano un'attenzione mirata e una conoscenza approfondita dell'avanguardia musicale di quegli anni. Proposti dal pulpito di un'autoraffigurazione volutamente repellente, socialmente deviante e degradata (che toccherà il suo apice l'anno successivo in We're Only In It For The Money), questi riferimenti colti vengono caricaturizzati con uno sfoggio di intellettualismo reso a bella posta così improbabile, da sfociare in un non-sense di sapore dadaista. È il segnale di quell'understatement musicale e culturale che rimarrà tipico di Zappa, nonché della sua volontà di "tenersi ben alla larga dalla new-music scene".
In questo rifiuto, in questa scelta di campo opera una consapevolezza culturale molto acuta che rifugge dall'assogettarsi a una legittimazione "dall'alto". In questo modo Zappa si sottrae abilmente a quel meccanismo che accomuna la quasi generalità dei musicisti pop nel momento in cui si cimentano con generi musicali legati alla tradizione colta. In questo rifiuto si coglie la sua totale estraneità a quella vera e propria "sindrome da legittimazione" che ha prodotto i capitoli forse più infelici della musica popular e che non cessa di spingere popstar di gran fama a proporsi con orchestre d'archi, a comporre opere, oratori, suites sinfoniche: un'illusoria ascesa all'Olimpo della grande musica che si risolve in un patetico scimmiottamento, un flop pressoché immancabile, che tradisce impietosamente l'incapacità di costoro nel padroneggiare una dignitosa prassi compositiva su questo terreno e, spesso, la mancanza di una reale e profonda motivazione creativa.
Uno degli aspetti salienti che si manifesta all'ascolto della musica di Franz Zappa è certamente l'estrema articolazione e complessità del costrutto musicale, unita alla accuratissima fattura dell'arrangiamento. Complessità e cura che, di norma, si accompagnano a un'esecuzione di altissimo livello. In poche parole, la musica di Zappa denuncia fin dall'ascolto, il ruolo non piccolo che in essa giocano la scrittura e l'architettura compositiva. Il bisogno che insorge nei musicisti, negli studiosi o nei semplici appassionati di passare dall'ascolto alla possibilità di osservare sulla carta come si costituisce quel linguaggio, quella forza, quell'originalità dirompente, rasenta a volte lo spasmodico. Eppure, nonostante la produzione sterminata, l'organizzazione produttiva ed editoriale più agguerrita che mai sia stata messa in piedi da un singolo musicista, le partiture, o le stesse riduzioni con melodia e sigle accordali, sono quanto di più raro o difficilmente accessibile in campo musicale.
Attualmente il catalogo della Barfko-Swill Scores offre in vendita per corrispondenza una trentina di brani in partitura, completi delle singole parti strumentali. Ma i costi, le attese e in generale le difficoltà cui va incontro chi cerca di ottenere queste musiche sono diventate ormai proverbiali. In libera circolazione ci sono solo due raccolte: i diciassette brani del Frank Zappa Songbooknell'ottima trascrizione realizzata da Ian Underwood e i ventidue assoli trascritti da Steve Vai e raccolti nel Frank Zappa Guitar Book. A parte qualche rara pagina pubblicata su riviste specializzate e alcuni spartiti accolti nelle varie edizioni del Real Book in trascrizioni a volte insoddisfacenti, non restano che le intavolature e le sequenze di accordi rintracciabili su Internet. Nient'altro.
Si tratta, come già accennato, di una situazione paradossale. Più la performance di Zappa si rivela ricca e complessa, più essa allude e fa nascere il bisogno di una chiarificazione che può venire dalla pagina scritta. Ma più cresce questo bisogno, più questa possibilità sembra negarsi, rendersi indisponibile. Questo rintanarsi del codice scritto in una dimensione "reservata", quasi esoterica, ha qualcosa di suggestivo, quasi a rispecchiare il generale tramonto della cultura musicale del segno scritto che aveva trasformato la scrittura in un'attività maniacale, fine a se stessa e indifferente al risultato sonoro. In questo senso, il centellinare il materiale scritto suona quasi come un monito rivolto a contrastare il bisogno (o il vizio) del ricorso alla pagina scritta, degenerato forse in pigrizia mentale. Rimane il fatto che la circostanza è piuttosto seccante.
Ma c'è anche un altro aspetto, senza dubbio più decisivo: la difficoltà a reperire la musica di Frank Zappa è connessa a una precisa volontà dello stesso compositore e dei suoi eredi, fermamente intenzionati a evitare che questa musica finisca nelle mani di musicisti mediocri e vada incontro a esecuzioni di livello inaccettabile. Non è tanto un disprezzo del dilettantismo (un disprezzo che da Beethoven a Debussy è un sentimento da lungo tempo ben noto ai compositori occidentali). Quello di Zappa è piuttosto un disprezzo del professionismo accademico degradato a routine concertistica, quel degrado che ha rappresentato forse il bersaglio musicale contro il quale Zappa ha scagliato le sue critiche più feroci, inveendo contro la stupidità dei collettivi orchestrali e delle istituzioni concertistiche. Più di una volta la sua musica si è scontrata con questa realtà ottusa e sclerotizzata riportandone sempre danni intollerabili. Agli occhi di Zappa che la propria musica fosse diretta da Zubin Metha, Kent Nagano, Pierre Boulez, alla testa di orchestre quali Los Angeles Philharmonic, London Symphony, Ensemble Intercontemporain, non era certo un privilegio tale da giustificare un prezzo così elevato come una cattiva esecuzione. Basterebbe questa inflessibilità, così aliena dalla compiacente disinvoltura dello show business, a distanziare di molte leghe Frank Zappa dai tanti personaggi del pop che fanno carte false per entrare nei sacrari della grande musica, pavoneggiandosi col loro bravo toupet sinfonico.
Di fatto, nella storia dell'editoria musicale la circospezione e la diffidenza con cui casa Zappa concede le musiche per l'esecuzione, rappresenta qualcosa di autenticamente rivoluzionario, il drastico ribaltamento di una consuetudine che ha sempre visto gli editori - almeno nel XX secolo - mobilitarsi per promuovere e far eseguire il più possibile - ovunque e da chiunque - i propri autori. Ma il fenomeno Zappa è diverso: per la prima volta una rockstar di fama firma partiture di grande complessità la cui presenza spezza la routine delle programmazioni concertistiche e teatrali, appare come un elemento rivitalizzante, capace di richiamare un pubblico e un'attenzione fuori della norma.
In sostanza, la famiglia Zappa tende a riservare la concessione della musica del compositore per una pubblica esecuzione unicamente a chi offre garanzie adeguate da un punto di vista artistico e tecnico. Può essere un atteggiamento discutibile, alla base del quale non c'è sicuramente un calcolo economico, bensì il proposito di evitare che il nome e la musica di Zappa vengano trasformati in articoli promozionali. Rispetto ai benefici derivanti da un maggior numero di esecuzioni, il rischio/certezza di esecuzioni inadeguate viene giudicato un prezzo troppo alto da pagare. Per queste e altre ragioni, Frank Zappa in quanto compositore - sia in vita, sia post mortem - presenta dunque una fisionomia assolutamente anomala nell'era dello show business: un autore che rivendica la propria identità e il proprio linguaggio di musicista rock, si tiene alla larga dagli ambienti accademici e sottopone a una critica lucida e inesorabile l'establishment musicale più blasonato, additandone la sclerotizzazione e la deriva anticulturale. Il tutto sorretto da un lascito artistico e musicale la cui autorevolezza risiede anche nell'essere perfettamente coerente con questa presa di posizione culturale.
4. Blue Varèse.
Il racconto degli esordi musicali di Zappa, ripetutamente fornito in numerose interviste, costituisce già, implicitamente, una critica corrosiva a certa pratica musicale accademica totalmente dominata dall'idea della scrittura come fine a se stessa:
Don Menn: Cosa ti ha spinto a scrivere musica?
F.Z.: Mi piaceva il suo aspetto [sulla carta] [...]. Nei miei primi anni ero interessato all'arte, ho fatto un sacco di disegni, bozzetti, dipinti, roba del genere e da sempre mi piaceva l'aspetto della musica. Mi piaceva anche ascoltarla, ma quando cominciai a scriverla fu solo perché mi piaceva il suo aspetto [...]. Fu verso i 14 anni, credo.
D.M.: Eri in grado di sentire mentalmente ciò che stavi scrivendo?
F.Z.: Assolutamente no. Non avevo la più pallida, fottutissima idea di come avrebbe suonato [...] Pensavo che tutto consistesse nel farsi un'idea in base all'aspetto grafico, scriverla e poi trovare un musicista in grado di leggerla".
Secondo quanto egli stesso racconta, quella che potremmo chiamare la grafomania musicale di Zappa sfociò in un numero imprecisato di partiture da camera o per orchestra, una delle quali venne finalmente eseguita nel 1963 al Mount St. Mary College. Fin dai primi anni Cinquanta Zappa aveva intrapreso lo studio delle percussioni, cominciando ben presto a suonare la batteria in band giovanili di rock & roll e rhythm & blues. Al liceo fece amicizia col suo compagno di scuola Don Van Vliet, con lui si appassionò al blues e coltivò l'ammirazione per chitarristi come Guitar Slim, Jonny "Guitar" Watson, Howlin' Wolf.
Finalmente verso la fine della high school acquistò la sua prima chitarra e poco dopo iniziò a suonarla in gruppo. In quegli stessi anni la famosa "scoperta" di Edgar Varèse non è un fatto isolato. Questo ragazzino che viveva nel deserto californiano del Mojave ascoltava anche Stockhausen, Boulez, Webern, Pierre Schaeffer e possedeva - sono parole sue - "un orizzonte musicale molto vasto".
In questa affollata e variopinta preistoria affondano le radici di un musicista per il quale il rock e il blues furono indubbiamente la lingua della socializzazione e dell'esperienza giovanile, ma i cui interessi personali erano rivolti in tutt'altra direzione e (compatibilmente con le difficoltà materiali di soddisfare una curiosità decisamente eccentrica) tenevano d'occhio l'intero repertorio dell'avanguardia musicale europea e americana, dalla serialità, alla musica concreta, all'aleatorietà.
È significativo che col passare degli anni Zappa si sia soffermato sempre più spesso su questo periodo della sua vita e della sua carriera, documentato oggi anche attraverso la pubblicazione su disco di alcuni lavori di quegli anni. Senza dubbio, la tentazione di stabilire delle priorità in merito al ruolo svolto da questo o quel genere musicale nella formazione del giovane Zappa è forte, ma nell'insieme è fuorviante. Dovrebbe però essere chiaro il fatto che di lì a poco, quando cominceranno a uscire i primi album firmati dalle Mothers of Invention, l'effetto così shockante e dirompente della sua musica non nasce al momento, quasi fosse una geniale trovata estemporanea per porsi alla testa dell'ondata freak californiana. Di fatto questo accadde, e non certo per caso, dal momento che Zappa sfruttò abilmente la carica sovversiva e anti-sistema della sua musica costruendovi su un'immagine volta a suscitare uno scandalo ben calcolato.
Ma il segno più profondo e duraturo che questi primi album lasciano è di altra natura. In essi, come in una sorta di manifesto (e le note di copertina di Freak Out! sono in effetti leggibili come il manifesto poetico di una nuova avanguardia), confluiscono in modo coerente, componendosi in una sintesi linguisticamente geniale e bizzarra, tutti gli interessi, gli esperimenti, le irrequietezze che da anni avevano accompagnato la formazione del musicista. Un compositore poliedrico, totalmente alieno dal moralismo estetico di chi separa l'arte dall'entertainment ("Davvero non capisco chi pensa all'arte come antidoto all'entertainment, come qualcosa che non ci deve dare nessuna esperienza godibile. Cosa c'è di sbagliato in ciò? Penso si tratti di una concezione punitiva dell'arte") e orgogliosamente risoluto nell'affermare la dignità della propria musica in quanto fonte di divertimento, di emozione e di piacere, prima per se stesso, quindi per gli altri: "Scrivo perché personalmente ciò che faccio mi diverte e se ciò che faccio diverte qualcun altro, bene; se non lo diverte, bene lo stesso. Ma io lo faccio per divertirmi".
La scelta antiaccademica di Zappa, il suo restare legato al mondo del rock non ha nulla a che fare con discriminanti stilistiche o di linguaggio. Essa è piuttosto la conseguenza di questa caparbia rivendicazione circa il fatto che la dignità dell'arte e della musica non viene sminuita qualora esse siano concepite per divertirsi e divertire. È un atteggiamento in larga parte inconciliabile con gli orientamenti sviluppatisi nel corso del XX secolo in seno alla musica d'avanguardia di matrice accademica, la quale ha indissolubilmente associato il divertimento all'arte volgare, alla lingua plebea; e questo nonostante il precoce e provocatorio ripudio nei confronti della musica "da ascoltare con la testa fra le mani" pronunciato da Cocteau in Le Coq et l'Arlequin. In questo senso il pop è ancora oggi "basso" non tanto perché musicalmente incolto, ma perché è musica connaturata all'intrattenimento, ossia al divertimento e dunque reca in sé una vocazione giudicata congenitamente antitetica alla musica d'arte.
La sottolineatura così energica del proprio privato divertimento come motivazione e come fine intrinsecamente nobile dello scrivere musica, ha al suo fondo un che di eroismo solipsistico, nel quale brilla forse un'estrema e disillusa propaggine di idealismo trascendentalista alla Thoreau. Tuttavia questo atteggiamento trova il suo dissacrante corrispettivo nella volgarità programmatica di un'individualità esibita in modi tutt'altro che edificanti, nel satireggiare spudorato, nell'oscenità sfrontata che caratterizza gran parte della musica vocale di Zappa. Sono proprio questi gli aspetti divenuti predominanti nella ricezione pubblica della sua musica, fino a trasformarsi in cliché asfissianti, amplificati dai mass media al punto da celare la sostanza profonda di una poetica che è invece nutrita da una severa eticità tanto nell'operare artistico, quanto nella critica sociale.
Quella di Zappa può dirsi una lotta strenua per riscattare la musica e in generale l'espressione artistica da ogni discriminazione di natura moralistica. A una lingua musicale che non maschera affatto e anzi impone la propria superiore caratura e l'ardita concezione sperimentale, Zappa abbina una poetica del grottesco che fa leva sul trash, che manipola una comicità da bassifondi, nutrita delle immagini più triviali e squalificate, che chiama in causa regolarmente ciò che Michail Bachtin ha definito il "basso corporeo" con riferimento alla lingua di François Rabelais.
Riprendo qui e cito un passaggio di un mio scritto di qualche anno fa nel quale già avevo già proposto un accostamento di Frank Zappa al grande scrittore francese. In Zappa il provocatorio sbandierare del "basso corporeo" mira ad affrancare la lingua del pop da una subordinazione culturale e a rivendicarne l'autonomia attraverso l'imposizione di ciò che viene considerata la quintessenza del plebeo. Un affrancamento che il pop deve realizzare non ripulendosi della sua volgarità, ossia elemosinando una legittimazione dall'alto, ma, al contrario, lanciando una sfida, esibendo questa sua natura e rivendicandola come elemento catalizzatore, dotato di una dirompente capacità critica e di forza linguisticamente innovativa.
Se è accettabile questa interpretazione dell'opera di Zappa, allora egli, in pieno XX secolo, sembra svolgere un ruolo non dissimile da quello che Rabelais, quasi cinquecento anni prima, svolse nella Francia, ma diciamo pure nell'Europa cinquecentesca, affrancando la lingua e la cultura popolare dalla sua soggezione all'universo colto e accademico. Scrive Michail Bachtin a conclusione del suo saggio su Rabelais: "Sul piano artistico e ideologico ciò che è importante è soprattutto l'eccezionale libertà delle immagini e delle loro associazioni, la libertà da tutte le regole verbali, da ogni gerarchia linguistica stabilita. Le distinzioni fra alto e basso, vietato e autorizzato, sacro e profano, nella lingua perdono tutta la loro forza. Là dove la coscienza creatrice vive in una sola e unica lingua o dove le lingue - se questa coscienza partecipa alle molteplici lingue - sono rigorosamente delimitate e non si battono per dominare, è impossibile superare tale dogmatismo profondamente radicato nel pensiero linguistico stesso. Ci si può mettere al di fuori della propria lingua solo quando avviene un cambiamento storico importante delle lingue, quando cioè esse, per così dire, si misurano l'una con l'altra e con il mondo, quando al loro interno cominciano a farsi sentire fortemente i limiti dei tempi, delle culture e dei gruppi sociali. È questo il caso di Rabelais. Soltanto in quell'epoca era possibile l'eccezionale radicalismo artistico e ideologico delle immagini rabelaisiane."
Anche limitandosi a questo passo di Bachtin, i punti di contatto e le analogie fra la situazione culturale cinquecentesca e quella presente sono molto forti, anche se, almeno in campo musicologico, mancano contributi orientati ad approfondire questa prospettiva. Grosso modo, tali analogie riguardano sia l'emergere di culture e di lingue subalterne a fronte della progressiva obsolescenza di modelli fino ad allora egemoni, sia il rivoluzionario instaurarsi di nuovi mezzi di diffusione e di comunicazione che incrementano a dismisura la circolazione e il consumo delle idee e dei testi. Mi sembra legittimo, all'interno di orizzonti di riferimento così diversi e lontani, eppure accomunati da dinamiche culturali e sociali almeno in parte paragonabili, chiedersi se l'interpretazione di Rabelais fornita da Bachtin possa diventare una chiave per indagare l'universo linguistico ed estetico dell'opera di Frank Zappa. Oltretutto una lettura di questo genere consentirebbe di valutare l'incidenza culturale e il significato storico della pop music, un'entità multiforme che, in musica, sembra proporsi come una sorta di lingua volgare del XX secolo.
In un momento storico in cui il mercato della musica, avendo di mira un consumo globalizzato, ha saputo abilmente dirottare la deriva interculturale verso un qualunquismo generalizzato del gusto; nel momento in cui vengono abbattute le distinzioni fra generi e culture al fine di rimuovere quel fattore antieconomico che è il giudizio estetico di valore, quella di Zappa è una prospettiva orgogliosamente controcorrente che, proprio per questo, finisce preda di mille fraintendimenti. Arruolare Zappa nelle file dei "contaminatori" che trasformano il "basso" in "alto" e viceversa è fuorviante almeno quanto assegnare alla sua scatologia programmatica, alla sua verve postribolare, alla sua poetica del disgusto un senso affine alla Merda d'artista di Piero Manzoni o alla vasta casistica dell'arte concettuale, del new-dada o di certa pop-art.
La componente dadaista in Zappa ha certo un ruolo enorme, ma ha un valore quasi esclusivamente euristico, strumentale, non certo di fine. Bycicle for Two, il concerto per bicicletta a quattro mani presentato in TV nel 1963, allo Steve Allen Show, appartiene all'esilarante pars destruens, all'indispensabile critica propedeutica di un artista che ci ha lasciato soprattutto una monumentale pars construens, un lascito nel quale la sua vocazione ludica è incorporata e trascesa.
Diversamente da Rabelais che fu un luminare dell'accademismo, Zappa non ha mai abbandonato la sua visuale profondamente estranea e avversa all'accademismo in ogni sua forma. Il suo statuto è quello tipicamente americano del compositore autodidatta, che matura il proprio lessico e le proprie risposte da solitario, votandosi a una sperimentazione sostanzialmente empirica, ribelle a ogni sistema precostituito. Il suo credo è: "auto-istruitevi". La discendenza è quella di Ives, di Cowell, di Nancarrow, di Partch. Nulla a che fare invece con John Cage, al quale, idealmente, lo accomuna soltanto il fatto di battersi contro lo stesso avversario. Nonostante il dada sia una componente del pensiero zappiano, l'eversione di Cage, il suo concentrarsi sulle procedure, l'enfatizzarne il carattere anticonvenzionale, disinteressandosi invece ostentatamente a orientare le proprie scelte in vista di un esito sonoro determinato e controllabile, è una prospettiva radicalmente distante da Zappa, per il quale la composizione è un processo organizzativo consistente nell'orientare le proprie strategie a un risultato sonoro.
Per Zappa il compositore "è come un cuoco" il cui operato è affidato a un giudizio di gusto necessariamente formulato attraverso l'ascolto. In questa prospettiva, la categoria del bello resta dunque costantemente operante e concerne la dimensione uditiva: "Certo l'elemento della bellezza è decisamente soggettivo. Tu puoi ascoltare quei lavori, e ammirarne l'organizzazione formale, ma ciò che ascolti è il risultato di ciò che gli strumenti stanno suonando. E se ti piacciono gli strumenti e il modo in cui sono suonati - poiché la cosa che stai ascoltando sono molecole d'aria attivate in risposta a un insieme di istruzioni su carta, le quali a loro volta vengono suonate da musicisti, che solleticano le molecole d'aria, che solleticano il microfono - a quel punto ti poni in ascolto e prendi la tua decisione".
Al vertice degli esempi cui Zappa fa riferimento c'è com'è noto Edgar Varèse, l'emigrante. "Just give me some stuff, and I'll organize it for you. That's what I do". Più della citazione relativa al "present-day composer", è questo l'aforisma che forse meglio rivela in Zappa un prosecutore della lezione di Edgar Varèse, un francese emigrato negli Stati Uniti nel 1915 e che nutriva convincimenti piuttosto marcati sia in merito all'esaurimento del ruolo europeo, sia riguardo il futuro della musica: "In Europa, scriveva il compositore nel 1922, non ho trovato nulla che si possa definire come una tendenza assolutamente nuova in campo compositivo, se si escludono le sperimentazioni che partono dallo stile sincopato del jazz americano [...]. Sono convinto che in questo dopoguerra stia costituendosi una cultura nuova, e che in America essa si manifesterà nella forma di un rinascimento musicale".
Zappa è varèsiano innanzitutto per una concezione musicale che apre un credito generalizzato a qualsiasi oggetto o linguaggio capace di entrare in un contesto sonoro organizzato: "qualsiasi cosa suonava bene per me, per qualsiasi ragione, fosse qualche dissonanza fragorosa, oppure una bella canzone con cambi di accordi e un ritmo regolare in sottofondo". "Datemi qualunque cosa e ve la organizzerò" è la dichiarazione di chi ha assimilato la nozione di "suono organizzato" così cara a Varèse: "preferisco ricorrere all'espressione "suono organizzato", così da evitare la tediosa questione: "ma è musica?". "Suono organizzato" sembra cogliere più precisamente l'aspetto duplice della musica, che è insieme arte e scienza, con riferimento alle recenti scoperte di laboratorio che ci hanno permesso di sperare in una sua incondizionata liberazione".
Sul piano più concretamente musicale, il terreno nel quale Zappa rivela il suo indebitamento con la lezione di Varèse è quello della scrittura orchestrale, specie in pagine come Lumpy Gravy, la Semi-Fraudulent Ouverture che apre 200 Motels, Pedro's Drowry o Bogus Pomp, (brano quest'ultimo che riprende e amplia l'introduzione di 200 Motels). La trama ritmica sorretta da una percussione scalpitante, con lo spiccare dei wood-blocks e col sovrapporsi degli scarni monosillabi di legni e ottoni; oppure, ancora, il trattamento degli archi (specie in Bogus Pomp) rimandano in modo più che evidente alla scrittura atematica di Varèse, a certo suo modo di articolare il ritmo, a certe sonorità e tessiture presenti in Intégrales, Arcana o Hyperprism, giocate anch'esse sul contrapporsi di masse sonore (soprattutto percussioni e fiati, ma anche archi) di diverso peso e spessore.
Tuttavia, più che nelle pagine per orchestra, dove l'omaggio a Varèse è più palese e prevedibile, è forse più interessante stabilire se e in che misura tracce di una prassi o di una mentalità prossime all'avanguardia e alla sperimentazione colta siano operanti sul terreno specifico della musica concepita da Zappa per rock band. Se, indipendentemente da Varèse, siano presenti cioè un tipo di scrittura musicale, un'elaborazione formale e dei materiali o, più in generale, procedure operative di derivazione colta che consentano di definire i termini del pensiero compositivo di Zappa.
Fin dall'inizio, a suggerire con forza l'idea che questo interrogativo sia poco più di una domanda retorica basterebbero due brani come Help I'm a Rock e, soprattutto, The Return of the Son of Monster Magnet, ossia i due titoli conclusivi di Freak Out!. Il rumorismo diffuso, lo scatenamento orgiastico fra allucinazione freudiana e animalesco-metropolitano, i continui cambi di tempo e soprattutto la complessità poliritmica della trama (ottenuta sovrapponendo alla percussione ossessiva un folto reticolo anch'esso ritmicamente connotato e formato da materiali elettronici, voci denaturate e altro ancora) rivelano un radicalismo linguistico e una complessità strutturale che si lasciano indietro di molto tutto ciò che fino ad allora era apparso nell'orizzonte della musica rock. Nel giro di neppure tre anni, attraverso brani quali Brown Shoes Don't Make It, Mother People, Oh No, The Chrome Plated Megaphone of Destiny, fino alla summa rappresentata dall'album Uncle Meat, Zappa opera una sostanziale e irreversibile compenetrazione fra l'idioma rock e il lessico della sperimentazione di area colta, spingendola fino al punto di rendere impossibile il tracciare una linea di demarcazione fra il rock e l'altro. Via via, fra le parodie del doo-wop e dei crooners, si fanno sempre più pressanti le istanze poste da composizioni musicali la cui connotazione rimane ambigua: un rock - se tale ancora si può definire - che dal punto di vista armonico, formale, coloristico e, soprattutto, ritmico, ingloba influssi musicali di tutt'altra provenienza. Varèse, certo, per la prominenza della componente ritmica, Stravinskij con i suoi costrutti poliritmici e politonali. Ma presenze altrettanto forti sono il disinibito collagismo di Ives, Schaeffer e la musica concreta ed elettronica, George Antheil con il suo macchinismo percussivo e l'apoteosi della marimba. Infine Nancarrow, solitario e appartato compagno di un viaggio ideale alla ricerca di un universo ritmico che sfocia nell'utopia.
Le interpretazioni critiche, le vicende biografiche, le parole del compositore, i riscontri offerti dall'ascolto, negli anni si sono accumulati a formare una vasta e disuguale letteratura zappiana nella quale scarseggiano però i contributi di tipo analitico. Questa scarsità ha una ragione precisa che, per certi versi, corrisponde a una sorta di condanna gravante tuttora sulla musica di Zappa. Una musica che da un lato si fonda su competenze che oltrepassano gli orizzonti del pop e del rock entro il quale questa musica si colloca e viene fruita in prevalenza. Per contro, questa stessa competenza e i relativi codici sembrano attingere a una sfera dotta che, in linea di principio, ripudia la musica di Zappa, sia perché estranea e anzi apertamente ostile al contesto accademico, sia per l'orizzonte culturale entro cui essa volutamente si colloca.
Per questo, calarsi nell'officina musicale di Zappa, fare luce su certi suoi meccanismi di funzionamento, indagarne i caratteri con gli strumenti dell'analisi è una pratica poco diffusa e doppiamente problematica. Eppure si tratta di un passaggio al quale non ci si può ulteriormente sottrarre.

 

Giordano Montecchi (da www.allaboutjazz.com/italy)