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Helmut Lachenmann (1935) o della "pasta del sensibile"

 

Vi sono poetiche di cui il tratto valorizzato è la trasparenza, di scrittura, di pennellata, di regia; in cui la materia dell'espressione si dà alla composizione nel suo scomparirvi. Oppure vi sono opere in cui la voce si fa pienamente discorso, volontà di conferire con il proprio fruitore in una somministrazione retorica dei contenuti.
In Lachenmann entrambe le strade estreme sono aggirate, talvolta attraversate, come in un percorso tra rovine di forme passate; la sua è una poetica dei materiali sonori (come in Nono, di cui è stato anche, in qualche modo, allievo), ma ancor più un discorso della materia, dei corpi sonori, della loro pelle, del loro legno, del loro metallo. Il loro "suonare" diviene un darsi, drammaticamente, come strumenti di suono, persino come un "essere feriti nella carne". Si tratta, in superficie, di una estetica oggettuale, ma talmente diretta alla nostra sensibilità, a una risposta sensoriale come fremito, vibrazione simpatica, "ferimento" che diviene lacerantemente umana e mondana.
Nella visione lachenmanniana corpo e mondo sono fluidamente interconnessi attraverso il ponte dei sensi, in una nudità primordiale e intracutanea, che rigetta la culturalizzazione o la ritrova anch'essa in brandelli, in reperti dolenti, macellati, sovraesposti al regno della comunicazione odierna. Tutta la musica è naturalmente risposta sensoriale, ma subito anche percezione, inquadramento culturale; richiedere una risposta subitanea dei sensi, tanto veloce e profonda da sorprendere il cognitivo, raffigurare questa nudità del senso e dei sensi, è cosa difficilissima: ci è riuscito Caravaggio con il suo Ragazzo morso da un ramarro (Collezione Longhi, Firenze), pittura-fremito, scossa percettiva, istantanea del senso, in cui, per un attimo, il là-fuori diventa carnalmente indubitabile, connessione a cui non ci si può sottrarre. L'esser scoperto delle cose là-fuori è il loro stesso essere aperte all'usura, alla distruzione. Gli strumenti non posano più davanti alla visione del compositore, e solamente si difendono alle intemperie violente dell'accadere. Nella musica di Lachenmann tastiamo la carne dello strumento e la lacerazione del suono; non sono affatto abusi interpretativi, violenze gratuite, provocazioni gestuali; gli è lontana quella tradizione.
Lachenmann è il Francis Bacon della pittura; lo strumento è il corpo isolato in una scena musicale che è campo esplorativo per il soggetto fruitore. E' una musica che non riesce più ad essere eloquente, che non ha che brandelli di storia dolente, estrazioni dolorose che non offriranno più ricomposizione, rincorporazione. E' musica "strappata" allo strumento, offerta come estrema testimonianza.
Lachenmann disorienta perché è il più antiretorico dei compositori, il più cosciente che  - come diceva Deleuze per Bacon - la tela (il pentagramma) non è mai bianco davanti all'artista, ma carico dei cliché del passato. Lachenmann non ha il coraggio di Nono, di una rifondazione radicale, né l'acuto dialogismo con il passato di Ligeti, l'ottimismo avanguardistico-paradisiaco di Stockhausen; per Lachenmman i clichè non possono essere in alcun modo oltrepassati, costituiscono una forza centripeta sferzante a cui non si può rispondere che con una disseminazione centrifuga, una loro scorporazione, disincarnazione, come i corpi di Bacon.
Come per Beckett, l'opera in Lachenmann è un dramma continuo del suo iniziare, del suo sostenersi tentennante, delle continue ricadute nel silenzio; questa è, del resto, una delle più alte lezioni colte da Nono. E' un continuo attendere che qualcosa abbia veramente luogo, ma vi sono solo falsi inizi (anche tutte le figure di Bacon sono in costante attesa).
Nello sfacelo dei suoni, nella loro continua riduzione al silenzio, nella loro tenuta frammentaria trovano appiglio nella struttura, in un discorso che gioca per continui ravvivamenti, rilanci, risonanze. Per questo la musica di Lachenmann non è mai episodica, casuale, ma profondamnte discorsiva, anche se paratattica. Il piacere nell'ascolto della sua musica è quello di ritrovare arcipelaghi nelle isole sonore, che invece della sabbia lagurare noniana, hanno la consistenza di scogli rocciosi, di scoppi improvvisi di flora tropicale, oppure di ghiacci taglienti. La magia dell'arcipelago sonoro, delle passeggiate percettive, pur tra cumuli di brandelli e macerie, emerge frequentemente, limpida, pronta a redimere lo "strazio"; è una scommessa spesso vinta, ma che quando fallisce porta a esercizi di chirurgia rappezzata (ancora una volta come in Bacon) e riduce all'anestetico: ma i rari fallimenti rendono ancor più vivide le vittorie. Lachenmann gioca al limite della musica, forse è "oltremusica", musica che sa vivere solo tramontando (per parafrasi Nietzsche), poesia che è sull'orlo di ammutolire (Paul Celan).
Solo in alcuni casi Lachenmann ha dato l'impressione di poter giungere a una classicità, a un discorso più eloquentemente disteso, forse come i tardi interni di Bacon senza più figura umana; paesaggi sonori in cui la poesia degli elementi è forma cangiante, in volo, nella fiamma, nel vento, metereologia degli affetti del mondo. E' il caso straordinario di Ausklang (1984-85) per pianoforte e orchestra, lavoro smisurato e controllatissimo, costruito per addensamenti/rarefazioni, risonanze e linee spezzate, culmine di una ricerca coerente pluridecennale che arriva alla sobrietà tipica di ciò che saprà essere "classico", lavoro che riassume e stempera gli angoli più acuminati dello stile lachenmanniamo, e che paradossalmente può fungere da introduzione al suo linguaggio, alla comprensione di uno dei compositori certamente più ostici all'ascolto.
Altrettanto riuscito e fascinoso è il percorso "stellare", pulviscolare di Allegro sostenuto (1986-88), che non disdegna stilemi anni cinquanta (non c'è rinnegazione in Lachenmann di quegli anni), ma che ha una coerenza e una limpidezza uniche, dove vi è la scoperta di suoni, di trame imprevedibili, di rime e ritmi di incauta quanto mirabile perlustrazione, quasi una geologia della musica, quasi un percorso speleologico delle sue cavità più recondite. 
Abbiamo iniziato da questi due capolavori della maturità perché sono quelli che più facilemente possono introdurre alla musica "tramontante" di Helmut Lachenmann. Questa sua versione più "classicista" (occorrerebbero molte virgolette) non deve far credere a un addolcimento stilistico negli ultimi anni; basti andare al secondo quartetto per archi "Reigen Seliger Geister" (1989) per ritrovare tutta la sua più spietata radicalità. 
Anche "...Zwei Gefüle...", Musik mit Leonardo (1992) ha una polverizzazione, un ritmo spezzato, che travolge anche la continuità sillabica del testo di Leonardo, restituito da una voce recitante (nell'edizione pubblicata è eseguita splendidamente dallo stesso Lachenmann). E' anzi uno dei pochi brani contemporanei in cui la voce recitante sia (come in Schoenberg) partecipe al discorso musicale e non fastidiosamente sovrapposta, come accade spesso in un tentativo di sincretismo incapace però di traduzione e reciproca seduzione tra linguaggi. Questo brano possiede anche un certo vitalismo, frasi ritmiche travolgenti, asperità continuamente alleggerite nel flautato degli archi o nei sospiri della voce. Il secondo quartetto è invece molto più silenzioso, rarefatto, diafano nelle forme, ma a tratti risulta di folgorante bellezza, raccolta dall'ascoltatore come reperto tra macerie, ascoltatore attivato sempre ad essere sulle tracce della musica, stimolato all'investigazione percettiva.
Ma vediamo ora di tornare agli inizi della carriera di Lachenmann, per quanto non sia editato molto degli esordi di carriera. Si risale tutt'al più al 1963 con lo splendido breve pezzo per pianoforte Wiegenlied, alternarsi di sonorità liquide e metalliche, lontanissimo dalle asperità musicali che verranno intraprese pochi anni dopo.
Anche il Trio per archi del 1965 è abbastanza interno a stilemi consolidati dell'avanguardia di quegli anni; il discorso musicale è molto continuo, pieno di fibrillazioni ritmico-melodiche, con una densità sonora piuttosto costante. Dimostra pienamente la padronanza compositiva di Lachenmann, anche se non risulta oltremodo originale.
Su linee analoghe, ancorché più riuscite, si posiziona Interieur I per percussione, brano molto eseguito e che dà conto di come Lachenmann sia interessato a una continua motivazione della sintagmatica musicale, per cui niente è casuale o estemporaneo.
Nel periodo 1966-68 si collocano invece tre brani chiave per il reperimento di un'idea musicale del tutto originale e esplorativa: temA (1968) per flauto, voce e violoncello, Trio fluido (1966-68) per clarinetto, viola e percussione, e soprattutto Notturno (Musik für Julia) (1966-68) per piccola orchestra e violoncello solo. Quest'ultimo contiene in sè il passaggio da due concezioni musicali differenti; l'inizio dinamico e potente lascia spazio improvvisamente a uno smarrimento del tessuto musicale, a vuoti immani, in cui uno strumento si infila isolatamente con qualche brandello di suono, che non accenna neppure a segni di "ripresa musicale". Poi il violoncello si apre a figurazioni, a glissandi che disegnano degli "archi" sonori alla Xenakis. La percussione metallica libera risonanze ultra-accese. Ne nasce ancora una volta un nuovo paesaggio che sembra rimandare ad atmosfere elettroniche.
TemA ha come protagonista una voce ridotta a urli, singhiozzi, sospiri: il brano possiede una forte carica erotica, un piacere sensibile evidente, un divertimento, persino. Vicino - se vogliamo - a Bussotti, ma con un controllo dei mezzi espressivi superiore. 
Il Trio fluido è invece un brano molto meno eclatante dei precedenti, ben costruito e misurato; più rare però sono le invenzioni staripanti e seduttive, anche se la seconda parte vede già una raggiunta frammentazione.
Più suggestivi e arguti sono invece Consolatio I e II (1967-68), per coro e percusioni il primo, per coro solo il secondo. Lo spezzettamento fonetico è rigoroso e conduce a figurazioni ritmiche, ribattute dalle percussioni, molto stimolanti. Ma anche questi due brani non danno conto della via radicale che Lachenmann sta per intraprendere.
Durante gli anni settanta si colloca di fatto il periodo più estremo della sua produzione, in cui per, quanto ci riguarda, risulta più importante il tragitto (che lo porterà ai capolavori anni ottanta) dei risultati estetici effettivamente conseguiti. Si parte con Guero per pianoforte e Pression per violoncello, entrambi del 1970, opere in cui lo strumento è condotto all'introspezione del suo corpo, della sua materia. E' una linea musicale intransigente, pronta a qualsiasi prezzo, al sacrificio, fino a giungere al Gran torso (primo quartetto d'archi), opera limite, suono ossificato, livore del contatto tra materie senza più polpa. In questi anni nascono le etichette  più soventemente usate per definire la musica di Lachenmann: "Musica concreta strumentale" (dove si segnala il fatto che l'evento sonoro è indissociabile dall'evento concreto esperienziale che lo produce), o addirittura "Ospedale militare della musica", "Lutto musicale permanente".
Il rischio dell'autocompiacimento, del rischio di un'Art Brut musicale, si dispiega in Tanzsuite mit Deutschlandlied (1980) per orchestra e quartetto d'archi, opera che segnala il travaglio di un percorso e la difficoltà di vendemmiarne tutti i profitti. Ma non bisognava che aspettare qualche anno.
Non sappiamo dove stia andando ora la musica di Lachenmann, né quale sarà il bilancio del suo percorso di ricerca, ma in ogni caso appare già oggi come tra i più appassionanti di fine '900 e impreziosito già da qualche sicura gemma di incalcolabile valore.

 

Pier Luigi Basso (da www.orfeonellarete.it)