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I concerti per pianoforte di Beethoven, la creazione di un modello

 

"Un fuoco di paglia, una violenta fiammata che si è consumata in se stessa", così Giorgio Pestelli definisce il concerto per pianoforte e orchestra dell'età classica, inventato da Mozart - inutile ricercare genealogie "galanti" - che codifica la forma raggiungendo vertici assoluti, e compiuto con Beethoven che consegna un modello intangibile di perfezione classica.
Tutto ciò nell'arco di vent'anni. L'humus in cui germoglia questo tipo di concerto è un composto di storia, sociologia, tecnica.
Alla fine del Settecento sono sempre meno le corti in grado di permettersi l'ufficio di un Kapellmeister e la borghesia emergente, emulando l'aristocrazia terriera, ne reclama gli stessi intrattenimenti. Per i pianisti compositori come Beethoven, liberi professionisti non stipendiati, il concerto solistico è il veicolo più efficace per promuoversi nelle accademie private e nei concerti pubblici, questi ultimi organizzati dai musicisti medesimi che rischiano l'impresa dopo aver intessuto una fitta ragnatela di relazioni sociali in grado di garantire l'affluenza necessaria a pagare il noleggio della sala, l'affissione dei manifesti e lo stipendio degli orchestrali. Con la speranza che qualche soldo rimanga nelle loro tasche.
Un business che incrementa le vendite dei costruttori di pianoforti dai quali gli esecutori percepiscono provvigioni, che fa guadagnare gli editori e procaccia nuovi allievi. Un circuito commerciale articolato e florido che produce effetti anche deteriori come il divismo. Sebbene a Bonn Beethoven non sia allievo di grandi clavicembalisti o pianisti, ha la fortuna di avere un maestro come Christian Gottlob Neefe che gli fa studiare il Clavicembalo ben temperato di Bach padre e il Versuch di Carl Philipp Emanuel, forgiandogli una buona tecnica e trasmettendogli il culto dell'esecuzione espressiva. Armi indispensabili per affrontare l'agguerrita concorrenza in una città come Vienna, che all'arrivo di Beethoven pullula di solisti-compositori che si disputano salotti e allievi, come Kozeluch, Vanhal, Stadler, Eberl, Hoffmeister, Hummel, Gelinek.
Questa "inflazione virtuosistica" è possibile grazie anche alla evoluzione tecnica dello strumento a tastiera che negli anni a cavaliere del secolo rende più spettacolari le esecuzioni. Per Mozart e Beethoven il pianoforte è un attrezzo del mestiere in continua metamorfosi capace di sorprendere con risorse inaspettate, che richiede un continuo aggiornamento da parte di chi vi si cimenta.
Nella sua Storia del pianoforte Piero Rattalino sottolinea l'impiego del legato e dello staccato sovrapposti nel secondo movimento del Concerto op. 15, connesso con l'uso del pedale di risonanza che Beethoven inizia a indicare proprio a partire da questo concerto. Nell'Andante con moto del Quarto concerto si riscontra invece il primo esempio dell'uso del pedale "una corda", ma probabilmente viene sperimentato anche un altro tipo di pedale, che non dura a lungo, nel Largo del Terzo concerto, che vede l'indicazione "con sordino" e "senza sordino".
Prima del 1809 Beethoven riceve in dono un pianoforte francese Érard dotato addirittura di quattro pedali (una corda, piano, risonanza, liuto), che gli permette, grazie anche al maggiore volume di suono rispetto agli strumenti viennesi, di sviluppare un virtuosismo teatrale, come testimonia il Quinto concerto op. 73, in cui l'esuberanza titanica del pianoforte arriva a costituire la base sonora dell'insieme strumentale. Se nei primi tre concerti è facile scorgere l'ascendenza mozartiana irrobustita dal pianismo moderno di Clementi e Dussek, con il Quarto Beethoven esplora un pianeta ignoto. Quell'entrata del pianoforte solo nel primo movimento è una rivoluzione destinata a impressionare non solo la critica coeva che lo definisce "tutto ciò che vi è di più strano, di più originale e di più difficile", ma anche le future generazioni romantiche a partire da Schubert.
In genere il solista aspetta muto l'esposizione dell'orchestra che diligentemente espone i due temi preparandogli il terreno o tutt'al più le due entità sonore attaccano insieme. Qui no, il pianoforte suona quietamente cinque battute e poi tace per tutta l'esposizione dell'orchestra. Ma ormai il più è fatto, bastano quelle poche note a delineare la tinta del concerto, a decretare la supremazia della poesia sulla spettacolarità mondana.
Quando chiedevano ad Artur Schnabel quale fosse il concerto più difficile in assoluto rispondeva il Quarto di Beethoven perché, diceva, appena cominciato il pianista ha un minuto di tempo per pensare a quanto ha già suonato male.

 

Filippo Fonsatti (da www.sistemamusica.it)