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Il decalogo del buon critico

 

Non c'è bisogno del critico per commentare la stecca che sentono tutti, e la sensibilità del non competente, del pubblico comune, in una certa serata può essere anche più sveglia di quella del critico; l'unica superiorità di costui è la somma di esperienze e conoscenze storiche che possiede, ma di cui dovrebbe dimenticarsi per ritrovarsele di fronte nell'esecuzione e riscoprirle lì dal vivo; la finzione dell'"ascoltatore ingenuo", tanto cara a Donald Francis Tovey, può servire anche al critico per un ascolto senza pregiudizi, evitandogli inoltre l'eventuale delusione di non riconoscere al concerto l'equivalente intellettuale degli schemi astratti che si è portato dietro da casa.
Le notizie sugli esecutori spetta agli organizzatori diffonderle nel modo più esauriente possibile e i problemi organizzativi, si sa, sono molto importanti, ma di modesto interesse per chi scrive (tutti vorrebbero più soldi), mentre chi legge trova discussioni e polemiche di questo genere inquadrate in forma più appropriata in altre pagine del giornale. Nessuna censura, fatte ragionevoli eccezioni, mi sembra invece da applicare allo specialismo di termini tecnici, che nella critica musicale è di gran lunga inferiore a quello che i giornali praticano nelle prime pagine economiche o sportive; né si può paragonare la critica musicale a quella teatrale o cinematografica o letteraria, dove c'è uno spettacolo o un libro da raccontare, mentre la musica non si racconta; l'unica cosa che si può raccontare è il dialogo che si apre fra l'immagine storica dell'opera e la sua viva rappresentazione in teatro: vedere se quella sera ha cambiato faccia, se la nuova prospettiva aperta dall'esecutore le ha aggiunto o tolto qualcosa; un dislivello che riguarda anche l'interprete, fra la memoria e la sua presenza attuale, senza troppa paura di cedere a esperienze o ricordi autobiografici. Nel valutare quella distanza è naturale si tenga conto dell'ambiente e del pubblico: altro è sentire una stessa sinfonia all'aperto o alla Filarmonica di Berlino, un Tristano a Bayreuth, a Monaco o al Teatro Greco di Taormina; altro in una sala mezzo vuota o in una piena come un uovo, con un pubblico di giovani o d'anziani, con un vicino che dorme o che batte il tempo con la mano; tutti dati e indizi importanti, che tanto meglio confluiscono nella recensione quanto più s'insinuano di straforo, in modo non dichiarato.
Il pubblico poi: stiamo attenti a non farne un personaggio preciso o troppo distaccato da tutti noi; capita a volte di cogliere una frase al volo e se chi la pronuncia è uno sconosciuto, ecco che subito la prendiamo come la voce genuina del pubblico e la registriamo in cronaca conferendo alla sua banalità quell'importanza che negheremo all'acuta osservazione di un conoscitore solo perché sappiamo chi è.
Da una parte insomma ci sono una quantità di cose, accertamenti, giudizi e pregiudizi, esecutori celebri e sconosciuti, ambienti diversi, atmosfere più o meno propizie; e dall'altra un bel foglio bianco: il vero problema del critico è far passare le prime nel secondo; e per farlo ci vorrà forse il cronista, ma a patto che sia anche uno scrittore: voglio dire che sia in grado di trascrivere, oggettivizzare le sue impressioni con i mezzi di cui si serve lo scrittore; cioè che abbia una sua maniera, un mestiere quale che sia, almeno fino a consentirgli di costruire un pezzo con un capo e una coda, giocando su una trama umoristica, sulla diversità delle intonazioni; persino per essere obbiettivi in modo non arido l'obbiettività non è sufficiente, e occorrono certe qualità di scrittura che suppongono, se non una esaltazione, una partecipazione poco obbiettiva. I nove decimi delle recensioni che si ricordano, che anche chi non era presente legge con piacere, non sono critiche "veridiche", o cronistiche, o polemiche, ma critiche scritte con gusto e sensibilità letteraria: qualità oggi svalutata dall'opinione comune, la quale vorrebbe convincerci che ormai la recensione non basta più a se stessa e per esistere ha bisogno di avere inoculato un morbo, una corrente elettrica di conflitti e di problemi: una sorta di critica galvanizzata, che sarebbe il modo moderno di trattare la cultura. Ora non si può negare che l'approccio per conflitto possa rivelarsi utile, ma non sempre, non a ogni costo; molte civiltà musicali, e fra le più genuine, molte personalità di musicisti non si spiegano con i conflitti ma con meravigliose immutabilità; e una buona critica musicale deve contrastare questa peste del giornalismo culturale che è il voltarsi a scovare cento falsi problemi invece di risolverne uno vero: che nel nostro caso è poi quello di sottrarre la musica all'ascolto indifferente e di integrarla nella vita e nella coscienza come occasione di comprensione, arricchimento e diletto.

 

Giorgio Pestelli (da www.sistemamusica.it)