Il leggero sinfonismo di Bizet
Votato alla musica scenica e teatrale, Georges Bizet ha esordito ragazzo con un'opera che pareva annunciare un luminoso futuro di sinfonista: appunto la Sinfonia in do maggiore, composta nell'autunno del 1855, senza apparenti richieste esterne, mentre il diciassettenne maestro ancora faceva pratica nel teatro parigino dell'Opéra Comique. La Sinfonia restò manoscritta e ignorata per quasi ottant'anni; nel 1923 Reynaldo Hahn, amico intimo del figlio di Bizet, donò al Conservatorio di Parigi un insieme di partiture fra le quali era finito l'autografo della composizione; lo storico Chantavoine ne diede notizia sul "Ménestrel" e due anni dopo, il 26 febbraio 1935, Felix Weingartner ne diresse la prima esecuzione a Basilea, aprendo la strada alla notorietà dell'opera, da allora sempre rimasta in repertorio.
È un lavoro che ha la leggerezza e la felicità delle "opere prime", delle opere nate senza sforzo apparente che sembrano sorprendersi da sole della loro vitalità al saluto del primo giorno; volendo, qualche modello può essere segnalato, come la Sinfonia in re di Gounod, che a sua volta discende dalla Sinfonia nella stessa tonalità di Cherubini; ma tutta di Bizet è l'innata attillatezza, l'eleganza e la freschezza dei temi: il giovane, oltre il sinfonismo francese, aveva assorbito Mozart e sopra tutto Mendelssohn, la cui trasparente scioltezza, dalla Sinfonia italiana all'Ouverture per il Sogno di Shakespeare riscalda come un raggio di sole il lieto paesaggio della Sinfonia; Bizet si presenta già padrone di quell'elemento squisitamente francese che la duchessa di Guermants chiamerà "l'esprit Merimée et Meilhac et Halévy", cioè l'espressione asciutta e rettilinea, nemica di enigmatiche profondità, sentimentalismi e ridondanze verbali.
Il primo movimento è come sospinto in avanti dallo scatto ritmico del suo primo tema; quando archi, fiati e timpani hanno lucidato le loro armi, ecco avanzare un tema cantabile d'incantevole fascino che girovagando dall'oboe a tutti gli altri strumenti si compenetra con il tema ritmico in un ininterrotto respiro; unica pausa, alcuni silvestri richiami del corno che preannunciano la ripresa della corsa. Con attenzione particolare bisogna ascoltare il secondo movimento, Adagio, dove è già presente il Bizet maggiore, se non il massimo: prima di prendere posto nell'elegiaca tonalità di la minore, c'è una introduzione di accordi tenuti alla Mendelssohn, una placida superficie dalla quale evapora, quasi bollicina d'aria che sale in superficie, un segnale di flauto, clarinetto e fagotto che ripete quel ritmo "della quaglia" cui Beethoven aveva dato spazio nella sua Sinfonia Pastorale (e da Schubert trasfigurato in un suo sublime Quintetto); non partecipa l'oboe, che è tenuto in serbo come protagonista di un canto struggente accompagnato dal pizzicato degli archi, quasi chitarra; melodia distesa, piena di suggestione mediterranea, pervasa dalla stessa luminosità degli intermezzi immortali della Carmen, appena un poco acerba nella ricerca cromatica di un ingenuo esotismo: ma purissima nella cadenza, tutta gremita di mordenti con il flauto che fa eco all'oboe. La suggestione di orizzonti a perdita d'occhio aumenta con il nuovo tema degli archi (ma continua il legame con l'accompagnamento pizzicato), librati nel lirismo più sfogato, quasi balsamo alla malinconica cantilena dell'oboe; al centro, il tema "della quaglia" diventa pretesto per un episodio in stile fugato, adorabile nel suo puntiglio scolastico, nella consapevolezza ingenua del lavoro ben fatto; ma un istinto avverte il giovane maestro dall'insistere e in buon punto riappare il tema cantabile dell'oboe, tutto punteggiato di lievi annotazioni degli altri strumenti, tranquilli arabeschi, statiche cascatelle di note: un quadro che avrebbe entusiasmato Tchajkovskij, innamorato di Bizet e fra i primi ad asserirne la grandezza nella percezione di quel "joli" che era il suo segreto, la sua parola personalissima pronunciata nel grande coro della musica ottocentesca.
Lo Scherzo è impostato con il vigore sanguigno di certe musiche per l'Arlésienne di Alphonse Daudet che Bizet scriverà nel 1872; è poi singolare come a un certo punto, in una intelaiatura che è tutta ritmo, Bizet non rinunci a far valere il suo prestigioso dono melodico, con una larga frase dei violini che svetta all'acuto; nel Trio intermedio, aperto dalle robuste "quinte" di violoncelli e contrabbassi, sono riprese le idee tematiche dello Scherzo, ma variate con alcune aperture a scale popolari (fa maggiore con si naturale), ritoccate e "regolarizzate" da alcuni dei primi editori. L'Allegro vivace conclude la Sinfonia con una corsa leggera che nella sua esteriore spensieratezza intreccia con straordinaria maestria tre idee principali: la prima è un lieve crepitìo di note che ridono sotto pelle, la seconda ha un'aria di fanfara (già pronta, si direbbe, a far marciare per due i soldatini della Carmen), la terza è l'ultimo volo melodico, l'ultima gemma cantabile della composizione: tre figure, tre caratteri diversi, ma tutto corre e rifluisce in un tempo unico, il tempo di una miracolosa primavera creativa.
Giorgio Pestelli (da www.sistemamusica.it)