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Il trovatore, un'assurda esperienza del vivere

 

Non cerchiamo coerenza e verosimiglianza in questa storia perché è inutile.
Difficile pensare che una madre faccia arrostire il proprio figlio scambiandolo con il bimbo del nemico; non del tutto lineare è la compresenza dei due mestieri di Manrico, capo militare e trovatore insieme. E ancora più incomprensibile la parentela tra il nobile cantore-armigero e quella zingara di sua madre, senza patria né tanto meno blasone.
Il libretto commissionato da Verdi a Cammarano, invitato a elaborare il dramma spagnolo allora di moda scritto da García-Gutiérrez, è bislacco quanto basta per registrare un certo indietreggiamento rispetto al percorso di innovazione intrapreso con Rigoletto. Come tutti i processi evolutivi non seguono un tragitto progressivo e continuo, ma a strattoni, così Trovatore rappresenta un'opera che consolida posizioni raggiunte senza azzardi temerari verso quel realismo verdiano in via di definizione: per questo rischia di soffocare, nell'immaginario dei melomani, tra i due estremi del celebre trittico, Rigoletto e Traviata. Non mancano invece elementi di innovazione: primo fra tutti Azucena, mezzosoprano, che esce dal ruolo di gregario – tradizionalmente assegnato a questo registro vocale – per assurgere a co-protagonista e araldo fiero dei dimenticati, dei diversi, dei fuori, appena dopo Rigoletto, prodromo di Otello, Falstaff, Jago. L'inventiva melodica è fresca e contagiosa, tanto che l'orchestra esce dalle convenzioni melodrammatiche fatte di sussulti e sottolineature occasionali oppure di tappeti sonori ad arpeggio e si modella sulla voce, la doppia per solidarietà o la echeggia come a materializzare una risonanza interiore; il lirismo inizia a strattonare dall'interno le forme chiuse di retaggio settecentesco che presto si scioglieranno in un flusso dinamico e continuo.
Nel Trovatore si parla di opposizione tra destini, che sono extrapersonali, e sogni, che appartengono ai cuori di ciascuno. Motore trainante del destino è la vendetta: Azucena, figlia di una presunta strega condannata al rogo dal Conte di Luna (il potere cieco) riceve dalla madre in punto di morte – quando ogni parola diventa un sacramento, una confidenza di Dio stesso –, la consegna di ordire una ritorsione contro il suo giustiziere.
Colore dominante dei sogni è ovviamente l'amore, come si manifesta, intenso, tra Leonora e il trovatore Manrico. Ci pensa il Conte, a più riprese, a svegliare i due piccioncini dal loro idillio: interessato a deflorare la giovane più che a coprirla di affetto, tenta di rapirla, sventa un matrimonio segreto obbligando Manrico a soccorrere la presunta madre Azucena, lo cattura costringendo la principessa a concedersi in cambio della vita di chi ama. Il destino di morte avvolge tutti in un fuoco disinfettante ed estirpatore insieme e la musica avvampa di densità tormentose: Leonora si avvelena pur di non farsi toccare dal Conte, Manrico è giustiziato. Ma un attimo prima di finire in cenere Azucena rivela al Conte: quello è tuo fratello.
Il suo compito metafisico è assolto, il malvagio può precipitare nel gorgo della colpa imperdonabile.
Si capisce chi vince: nessun uomo può nulla se non piegarsi al fuoco di una volontà superiore.
L'opera, accolta con trionfali acclamazioni al Teatro Apollo di Roma nel 1853, merita ai nostri occhi un ulteriore elogio per modernità: pirandellianamente in un teatro di poesia e musica un cantore antico – il trovatore appunto – celebra il potere che queste due armi hanno di raccontare quanto assurda e tragica sia l'esperienza del vivere.

 

Gianni Nuti (da www.sistemamusica.it)