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La lezione della Nona sinfonia

 

Nella serie delle Nove sinfonie di Beethoven, la Nona, anche cronologicamente, è "a parte"; le prime otto vengono alla luce nel breve spazio di un decennio (1800–1811), la Nona sinfonia circa undici anni dopo l'Ottava; ma l'opera è "a parte" sopra tutto in senso culturale e morale. È bene ricordare che la forma sinfonica non è un genere adatto a cogliere qualunque tipo d'ispirazione e infatti Beethoven, dopo il "ciclo" delle Sinfonie dalla Prima all'Ottava, si rivolge per le sue esigenze interiori ad altri generi, sonate per pianoforte, quartetti, variazioni, più aderenti a quell'intreccio di illuminazioni, allusioni e abbandoni meditativi che costituiscono il misterioso tessuto del suo così detto "terzo stile", sul quale la Nona sinfonia viene a sovrapporsi, nascendo dalla confluenza di varie componenti e di vari progetti, attivati dalla richiesta pervenuta dalla Società Filarmonica di Londra di una nuova sinfonia puramente strumentale. Ma Beethoven coltivava da tempo l'idea di un'altra composizione sinfonica con intervento finale di un coro su un testo poetico tedesco ancora da reperire; per un po' i due progetti procedono distinti, poi trovano l'interferenza con un terzo progetto, quello di musicare l'Ode alla gioia di Schiller, idea che accompagnava il compositore fin dalla giovinezza, e che solo nel 1823, dopo saltuarie apparizioni, riemerge in modo imperioso facendo da catalizzatore di tutti quei fermenti.
Alla fine, il "ritorno alla sinfonia" rappresentato dalla Nona significa questo: un riassunto di tutte le sinfonie precedenti, un colpo d'occhio dall'alto, introduttivo a un canto finale che costituisce una sorta di uscita, una volta per tutte, dalla forma sinfonica classica.
La prima esecuzione della Nona sinfonia op. 125, assieme all'Ouverture La consacrazione del teatro e a tre parti della Messa solenne op. 123, avvenne il 7 maggio del 1824 al Teatro di Porta Carinzia a Vienna, ultima trionfale manifestazione pubblica di Beethoven; alla serata, denominata Grande Accademia Musicale, non fu estraneo un carattere di orgogliosa affermazione tedesca contro la fortuna crescente di Rossini che in quel tempo stava conquistando Vienna; è singolare tuttavia la presenza nel quartetto di solisti vocali di due giovinette destinate a una gloriosa carriera teatrale, Henriette Sontag e Caroline Hunger: toccò a quest'ultima, alla fine dell'Accademia, avvicinarsi al maestro, ormai completamente sordo e un po' imbronciato per l'esecuzione non provata a sufficienza, prenderlo per mano e girarlo verso la platea dove il pubblico in piedi agitava i fazzoletti al colmo dell'entusiasmo.
Esteriormente il tratto saliente dell'opera resta l'intonazione finale dell'Ode alla gioia di Schiller; ma questa mossa, in realtà, non fa che rappresentare in forma esplicita una premessa ideologica presente in tutto Beethoven: cantare la gioia, scoprire che la gioia, non il dolore, affratella gli uomini (fra tutte le strofe dell'Ode Beethoven sceglie solo quelle relative a questo tema), vuol dire superare gli ostacoli e le limitazioni personali, significa risalire la china dell'egoismo individuale verso un nuovo sentimento di religiosità umana: un messaggio che pronunciato da un uomo non certo vezzeggiato dalla vita, e in tempi non meno inquieti dei nostri, costituisce per noi moderni una severa lezione; una lezione di cui ancora non abbiamo saputo profittare come avremmo dovuto: e anche in questa inadeguatezza consiste la perenne attualità del messaggio espresso dalla Nona sinfonia di Beethoven.

 

Giorgio Pestelli (da www.sistemamusica.it)