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La rassegnata solitude di Mahler

 

Proviamo a fare un (modesto) esperimento. Prima leggete questa frase: "A mezzanotte ho spinto i miei pensieri ai limiti del buio, ma nessun soffio di luce è venuto a confortarmi". Non particolarmente gioioso, il paesaggio, no? Anzi, attraversato da una saetta tragica, con quel gesto estremo e faticoso, mezzo astratto e mezzo concreto, di spingere i pensieri al limite del buio. Benissimo. Adesso provate a guardare quest'immagine: lo sfondo è nero, nero-fumo, nero-caligine, al centro c'è una donna, seduta a terra, con un abito di tela grezza che la copre dalle spalle alle caviglie. Le gambe sono incrociate, le ginocchia aperte e le braccia le cadono in grembo, una intrecciata all'altra, quasi senza peso, abbandonate, cadenti. La testa della donna è reclinata in avanti, si tuffa, quasi, nel triangolo bianco disegnato dalle braccia nude, in modo che l'onda dei capelli scenda giù, morbidamente, fino a sfiorare i polsi. Non vi sembra che anche lei, come l'io parlante della frase, stia faticosamente conducendo i suoi pensieri verso la soglia che divide il buio dalla luce e che anche lei, dalla luce assente, assorbita dal nero dello sfondo, non possa trarre alcun conforto?
Tra le parole e le immagini, a volte (lo sappiamo tutti) si accendono strane corrispondenze, intarsi misteriosi, richiami cantati (magari) sottovoce, ma precisi come un cronometro. In questo caso l'orologio non ha fatto una gran fatica perché i due "reperti" che abbiamo sotto gli occhi sono separati da appena una trentina d'anni: il primo è costituito da sei versi firmati all'alba dell'Ottocento da Friedrich Rückert, scrittore tedesco lontano dall'immortalità, grecista e orientalista di fama, sospeso tra classicismo goethiano ed esotismo romantico. Il titolo della poesia da cui i versi sono tratti è, per la cronaca, Um Mitternacht (A mezzanotte). Il secondo reperto è invece un dipinto, piuttosto noto, realizzato da Heinrich Füssli, visionario, inquieto, pittore anglo-svizzero, vissuto (anche lui) a cavallo fra tramonti classicisti e tentazioni proto-romantiche. Il quadro s'intitola, sempre per la cronaca, Il silenzio.
Ora, vi chiederete: ma che cosa ci fanno questi due reperti uno vicino all'altro? Che delitto è stato compiuto, se è stato compiuto, e che razza di prove saranno mai queste? Vi potete tranquillizzare, nessun delitto efferato, ma un piccolo giallo, sì. Se infatti (terza fase dell'esperimento) provate a far scorrere i versi di Rückert sulla superficie del dipinto di Füssli, se provate a sovrapporre le due trame, non è affatto improbabile che dall'attrito tra le parole e il colore nasca qualche cosa che assomiglia a un suono. Anzi, se l'esperimento riesce fino in fondo la scintilla tra la "mezzanotte" e il "silenzio" dovrebbe addirittura generare una voce e poi una melodia e alla fine persino il canto di un'orchestra.
Sì, perché l'impressione (magari sbagliata, ma si tratta appunto di una "impressione", simile a quelle che, una volta, si depositavano involontariamente sulle lastre fotografiche) è che il più esteso e ambizioso dei cinque (cosiddetti) Rückert Lieder di Gustav Mahler, Um Mitternacht per l'appunto, non nasca dalla semplice (?) intonazione di un testo poetico, ma contenga in sé e per sé una prepotente, esplosiva capacità immaginativa, la facoltà insomma più che di far "sentire", di far "vedere". A che cosa si deve questo piccolo miracolo, questa inclinazione "visiva" delle parole e dei suoni che i greci chiamavano con una parola oggi piuttosto astrusa come "ipotiposi"? A ben leggere e a ben ascoltare il prodigio (come tutti i prodigi) possiede una ragione precisa, anzi due, una di carattere testuale e l'altra di tipo squisitamente musicale. Il testo di Rückert si basa su un procedimento elementare che è la ripetizione, a ogni nuova strofa, della stessa identica espressione (i soliti retori greci la chiamavano "anafora"), e questa espressione è quella che viene dal titolo: Um Mitternacht, ossia A mezzanotte. Per cinque volte scocca la desolatissima mezzanotte dell'io poetico, e per cinque volte noi vediamo il buio, il buio contro il quale si infrangono i pensieri, battono dolenti i "colpi del cuore" e le pene combattono la loro battaglia. Ed è a questo buio denso, inesorabile, implacabile che Mahler ha offerto suono e struttura.
Certo non tutti i cinque "canti" della raccolta intitolata a Friedrich Rückert possiedono la medesima "temperatura" visiva e visionaria. Il Lied che apre il ciclo, Blicke mir nicht in die Lieder (Non curiosare nei miei canti) è ad esempio un moto perpetuo in miniatura, uno studio sulla rapidità del suono, affidato al timbro sottile e sfuggente di un'orchestra fatta di soli legni, corno, arpa e archi acuti. Il secondo, Ich atemet' einem linden Duft (Respiravo un tenero profumo) si diverte a intrecciare giochi sottili e delicati tra il suono delle parole e il suono degli strumenti: mentre nella trama del testo lind (dolce) si intreccia con Linde (tiglio) e lieblich (amoroso) gioca all'eco con Liebe (amore), e sono i suoni delle liquide a dettare le regole, l'orchestra tesse il suo ordito usando i fili delicatissimi di una elementare "melodia di timbri", tutta giocata sul colore dei fagotti, dei corni, dell'arpa, della celesta e degli archi acuti. E anche il lievissimo sigillo della raccolta, Liebst du um Schoenheit (Se ami per la bellezza) è niente più che un biglietto amoroso infilato segretamente da Gustav tra le pagine del Siegfred che Alma, giovanissima sposa, sfogliava ogni giorno sulle rive di un ameno lago montano. Soltanto Ich bin der Welt abhanden gekommen (Sono perduto ormai al mondo) riesce a far "vedere", con tutta la forza del suono, un'altra dimensione che al suono è estranea: non il buio, questa volta e nemmeno il suo compagno di strada, il silenzio, bensì la madre pietosa di entrambi: la solitudine. Il "perdersi al mondo" che anticipa in modo sensazionale i futuri smarrimenti proustiani, assume la forma, per niente liederistica, di un esteso, tesissimo "preludio sinfonico" di marcata ascendenza wagneriana in cui la voce disegna non una convenzionale melodia, ma tracciato retorico che registra puntualmente, con la precisione di un sismografo, i sussulti minimi di una silenziosissima, rassegnata solitude.

 

Guido Barbieri (da www.sistemamusica.it)