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La sfida delle orchestre private

 

Se si dovesse dare ascolto ai numeri, quelli nudi e crudi offerti in pasto dalle statistiche "ufficiali", l'Italia potrebbe assomigliare al leggendario "paese delle orchestre" raccontato dalle favole dell'antica Cina. E non avrebbe nulla da invidiare alle "sorelle maggiori" (le signore Francia, Germania e Gran Bretagna), nazioni dove l'idea di "suonare insieme" (in due, in quattro o in cento non importa) non è affatto una leggenda, ma un gesto semplice e naturale: grosso modo come, per noi, andare la domenica allo stadio. La moltiplicazione miracolosa di primi violini e secondi clarinetti, di flauti con l'obbligo dell'ottavino e di prime viole con l'obbligo della fila non riguarda soltanto le comode stanze delle orchestre "pubbliche", ossia quelle tenute in vita (anche se con parsimoniosa avarizia) dalle casse dello Stato. Il "miracolo statistico" bacia al contrario anche la galassia indistinta e sfuggente delle orchestre che a buon diritto (o per necessità) si possono definire "private". Se si escludono i "complessi orchestrali" delle fondazioni liriche, le orchestre regionali (le leggendarie "Ico"), le formazioni giovanili e le millanta orchestre da camera che abitano negli angoli più remoti della penisola, le orchestre private capaci di reggersi più o meno saldamente con le proprie gambe (senza dunque dipendere per più del cinquanta per cento dal denaro pubblico) sono nel Bel Paese la bellezza di trentanove. Un numero davvero sorprendente se si considera la cronica assenza di ogni progetto legislativo che tenti di mettere ordine nella giungla della formazione e della produzione musicale.
Non tutte le orchestre registrate all'anagrafe come tali possono vantare, ovviamente, gradi e mostrine di uguale splendore. Tra le "magnifiche trentanove" figurano ad esempio imprese dall'ego piuttosto ingombrante come la mitica European Philharmonic Orchestra di Castrate Sempione, avventure solitarie come l'Orchestra dell'Opera Barocca di Guastalla, vere e proprie "missioni umanitarie" come l'Orchestra di Fiati di Cernusco sul Naviglio o eroiche campagne di sopravvivenza come la nostalgica Orchestra Sinfonica «Hans Swarowsky» di Ferrera Erbognone. Accanto a loro le due star milanesi dello scacchiere italiano, la «Giuseppe Verdi» e la «Guido Cantelli» (amiche nemiche oppresse da malumori di diversa natura), sembrano ovviamente possedere la statura di altrettante gigantesse. Ma, tagliando le frequenze alte e quelle basse e tentando una media approssimativa, il "core" (da leggersi indifferentemente sia secondo la lectio anglofona sia secondo quella romanesca) del movimento orchestrale nazionale non è affatto da buttare via. Certo, nessuna di queste esperienze può essere neanche pallidamente paragonata alle storiche imprese orchestrali fiorite nel Nord d'Europa dopo la fine della Guerra: l'Orchestra Città di Ferrara e l'Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza, la Filarmonica di Udine e la Filarmonica Salernitana «Giuseppe Verdi», l'Internazionale d'Italia e l'Orchestra Sinfonica di Perugia (tanto per azzardare qualche nome) sono tutti complessi semi-stabili, di discreto livello qualitativo, legati in modo più o meno organico alle rispettive istituzioni musicali cittadine: teatri di tradizione, festival, associazioni concertistiche. Non si può nemmeno dire che godano di uno statuto limpidamente privato (del resto, come si può pretendere che una creatura così complessa e così costosa come un'orchestra possa gettarsi nel grande gorgo del mercato senza nessuna ancora di salvataggio?) Ma non si tratta nemmeno di istituzioni rigide ed elefantiache, legate mani e piedi alla sospirata e sempre più incerta erogazione del magico "contributo pubblico": gli organici al contrario sono spesso variabili e flessibili, i contratti di lavoro rigorosamente temporanei, il futuro imperscrutabile come un cielo senza stelle.
È universalmente noto che l'instabilità e la precarietà non sono certo le medicine più efficaci per garantire la salute di un corpo bizzarro e imprevedibile come un'orchestra che anzi ha bisogno, per superare i test di efficienza, dell'esatto contrario: stabilità, continuità, sicurezza di esistenza. Ma è la conseguenza fatale della scelta "storica" dei paesi occidentali di modificare in modo sempre più netto il rapporto tra stato e mercato, a favore, naturalmente, di quest'ultimo. Se lo stato fa ogni giorno un passo indietro rispetto alla tutela del welfare sociale, perché dovrebbe dannarsi l'anima e il portafoglio per garantire lo sviluppo sicuro e costante del welfare culturale? Al momento, esclusa la creatura milanese allevata con cura e dedizione da Riccardo Chailly e la sfida romana lanciata da Francesco La Vecchia con l'Orchestra Sinfonica Giovanile di Roma, nessuno sembra essersi lanciato nella "folle idea" di affidare alla schizofrenia del "mercato" le sorti di una macchina delicata ed esigente come un'orchestra. E fino a quando banche e imprese, fondazioni e industrie rimarranno cieche e sorde a ogni impegno, mai niente, nel "paese dove fioriscono i limoni", accadrà.

 

Guido Barbieri (da www.sistemamusica.it)