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La vera polifonia di Mahler

 

Nel passaggio fra Otto e Novecento, la critica musicale europea fu molto severa nei confronti dei direttori d'orchestra dediti anche, se non principalmente, alla composizione. La chiamavano appunto "musica da direttori d'orchestra" e intendevano, con questa definizione, una forma speciale del kitsch musicale: un eccesso di volumi sonori, una strumentazione esuberante e monumentale, buona a far bella figura sul podio, ma poche idee musicali e, quelle poche, volgari. Gustav Mahler fu, con Richard Strauss, il bersaglio preferito di queste critiche. Tanto più che nel caso di Mahler la presenza di suoni presi dalla natura o dalla strada, dai campanacci delle mucche al pascolo o dalle bande di villaggi e città, sembrava confermare la sua inclinazione al kitsch con la forza di un'evidenza incontestabile. Analisi più attente e raffinate hanno mostrato, però, quanto precisa e calcolata sia l'arte dell'orchestrazione in Richard Strauss, autore che spesso nasconde le sue idee nelle parti degli strumenti collocati al centro della partitura, dunque alle sonorità interne, non a quelle più in vista perché poste nel registro acuto o in quello grave. A sua volta, la presenza di motivi d'infanzia o di musiche di bassa estrazione, nelle Sinfonie di Mahler, è stata da tempo interpretata non come il riflesso di una mancanza di gusto, ma come la manifestazione più nitida di una cultura, la nostra, nella quale un rapporto diretto e ingenuo con i materiali della percezione sonora non è più possibile, dato che tutto viene filtrato dalla memoria del già visto e del già sentito.
L'ascolto di una composizione geniale e controversa come la Sinfonia n. 7, d'altra parte, spezza una lancia anche a favore dell'orchestrazione mahleriana svelandone i tratti più delicati e fini, mostrando come gli effetti di massa del suono si alternino a parti nelle quali emerge il trattamento solistico degli strumenti, al punto che anche i passaggi di più schietta e inequivocabile monumentalità siano il prodotto di un'orchestra intesa come una "comunità di solisti indipendenti", secondo la brillante definizione di Gabriel Engel.
Sembra che anche i più stretti amici e collaboratori di Mahler rimanessero allibiti della sua capacità di immergersi negli ambienti sonori più disparati nel corso delle sue passeggiate in montagna e nei paesi dove trascorreva le vacanze. A volte, così dicono, non gli si poteva neppure rivolgere la parola, tanto era assorbito dalle grida degli uomini in paese, oppure dai versi degli animali nel paesaggio, dai rumori negli ambienti di lavoro, dalla confusione dei linguaggi nelle conversazioni, oltre che naturalmente dall'eco delle bande musicali. In questa babele di suoni che si combinano in modo del tutto accidentale, sembra dicesse Mahler, sta l'essenza della vera polifonia, che consiste in un insieme di voci indipendenti, ciascuna delle quali segue il proprio "spartito" secondo la via e le forme d'espressione che gli convengono. Al momento di tesaurizzare queste esperienze, di ritradurle in musica, Mahler sceglie un tipo di orchestrazione non sempre trasparente al primo impatto, ma che in alcuni casi, e in modo emblematico nella Sinfonia n. 7, raggiunge un grado di pulizia e di equilibrio addirittura mozartiano.
I due movimenti chiamati Nachtmusik I e Nachtmusik II, con l'uso di strumenti insoliti in orchestra, come la chitarra e il mandolino, sono in questo senso particolarmente indicativi, ma più in generale lo è tutta la concezione di una sonorità nella quale ricchissima è la sezione dei legni: 4 flauti, 1 ottavino, 3 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti e 1 controfagotto.
A Mozart, forse, fa pensare un dato esterno: il fatto che la prima esecuzione abbia avuto luogo a Praga (nel 1908), ovvero nella città che più di ogni altra ha coltivato la leggenda mozartiana e ha tributato onori, in vita, all'autore delle Nozze di Figaro, del Don Giovanni e della Clemenza di Tito. Ma molto di più di questa semplice circostanza, ad avvicinare la Sinfonia n. 7 al modello mozartiano sono la leggerezza e l'unità dello stile, anche se questo deriva dalla combinazione di una varietà di stili eterogenei che, in passato, è stata giudicata piuttosto come il segno di una mancanza di stile. Oggi, forse, possiamo rileggere le opinioni dei detrattori di Mahler e limitarci a rovesciarne il senso. Una polifonia di stili, dunque, sostituisce in lui l'univocità dei partiti presi, così come l'inclinazione al kitsch è un modo di fare i conti, per la prima volta, con l'avvento della società di massa nella dimensione dell'ascolto e della creatività musicale. La grande orchestra sinfonica di fine Ottocento, che di questo avvento è stata protagonista, poteva svelare i suoi segreti e le sue potenzialità, il suo lato pacchiano e le sue più sottili rifrangenze, solo a chi le conoscesse a perfezione e sapesse controllarle, giungendo a farne l'oggetto di una riflessione al tempo stesso spettacolare e notturna, esuberante e introspettiva, quale è quella della Sinfonia n. 7. E allora, sapendo cosa c'è davvero in gioco nell'espressione, prendendola come il nome di un vissuto, e non come un termine spregiativo, possiamo anche continuare a chiamarla, se si vuole, "musica da direttore d'orchestra".

 

Stefano Catucci (da www.sistemamusica.it)