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Le «forme brevi» nella tradizione latina

 

Mentre Isocrate e i suoi seguaci annoverano la brevitas tra le virtutes narrationis, Aristotele (rhet 1416 b 30) esprime su di essa una posizione prudente, preferendole tò metrìos, la 'lunghezza misurata' (cf. Quint. 4 Aristoteles praeceptum brevitatis inridens). Tra i latini la brevitas è guardata con sospetto dalla precettistica oratoria (Cicerone, Quintiliano, Plinio il Giovane) che paventa difficoltà di comprensione per l'uditorio forense (la Rhetorica ad Herennium propone, infatti, che l'orazione sia brevis, dilucida e verisimilis, posizione recuperata alla fine del I d.C. da Elio Teone di Alessandria nei Progymnasmata); negli storiografi, Tucidide e Sallustio in particolare, essa è invece generalmente apprezzata (Cicerone, Seneca padre, Plinio il Giovane, Gellio e Sidonio Apollinare), fatte salve alcune tarde voci dissenzienti (Orosio, Cassiodoro). Risulta, poi, essere una virtù anche tra i poeti: Fedro nell'epilogo del IV libro dichiara, a proposito delle proprie favole, si non ingenium, certe brevitatem approba; Gellio ricorda alcuni versi dell'Ecuba di Euripide e il grammatico Diomede un emistichio di Virgilio (Aen I 342). Orazio, seguendo la precettistica peripatetica post teofrastea, accoppia safèneia ('chiarezza') e syntomìa ('stringatezza'): loda la brevitas (sat 1. 10. 9) additandone come rischio il vitium dell'obscuritas (ars 25). Nella Rhetorica ad Herennium (4. 68) e in Quintiliano la brevitas è definita come un argomento sviluppato con le parole strettamente necessarie; i Greci, invece, distinguevano tra la circumcisa expositio, che omette il superfluo, e la brevis expositio, che sacrifica anche quanto può risultare utile. Nello stesso passo della Rhetorica si ricorda che la brevitas pur compresa in poche parole consente lo sviluppo di molti argomenti, mettendo così in luce come l'esiguità di parole va di pari passo con l'abbondanza e la densità di concetti (caratteristica sintetizzabile nel motto non multa sed multum).
Delle forme brevi latine si può proporre una classificazione tripartita.
1. Forme ultra brevi: l'estrema compressione delle res si accompagna a una più o meno accentuata elaborazione sul piano formale, che ne rende agevole la memorizzazione. All'interno di questa categoria si comprendono, in direzione della narratio dilucida, aforismi, proverbi, sententiae (nella loro varietà di forme e contenuti), praecepta, motti (ad es. veni vidi vici), motteggi scherzosi; tra le forme affette da obscuritas (o ambiguitas) si annoverano responsi oracolari, aenigmata (Ateneo, Simposio), entimemi, paradossi, allusioni. Mentre il proverbium nasce anonimo e rimane ancorato alla situazione concreta da cui deriva, nella sententia ­– come sostiene Starobinsky – il dato dell'esperienza non sopravvive in quanto caduco, inessenziale al senso e al riuso della sententia stessa, riuso che può avere a un esito diverso, opposto, addirittura parodico rispetto a quello iniziale.
2. Forme di brevità relativa: in esse si ha un nucleo narrativo non compresso, più articolato rispetto alle precedenti: apologhi, aneddoti, epilli (che si differenziano dal grande epos per dimensione e per tono), epigrammi, exempla, fabulae (esopiche o fedriane, non milesiae come quelle apuleiane di met. 9 e 10), ecloghe e idilli (sia nell'accezione di Plinio il giovane di 'breve composizione' sia in quella più diffusa di 'componimento pastorale'), parabole (presenti solo nei Vangeli sinottici e assenti nella patristica), poesie d'occasione (con riferimento agli esametri improvvisati di Plinio il Giovane). Queste forme (come, ovviamente, quelle del capo 1) possono essere sia decontestualizzate sia inserite in altri generi: ad esempio l'epillio (che presenta elementi spuri di carattere fiabesco) di Aristeo e Orfeo in georg. 4; le favole oraziane del topo di campagna e topo di città in sat. 2. 6. 79-117,del cervo e del cavallo in ep. 1. 10. 34-43; la favola dell'allodola che, stando a Gellio, si trovava nelle Saturae di Ennio. L'epigramma nasce come scrittura esposta e mantiene questa funzione anche nella tarda latinità: Isidoro spiega il termine con 'superscriptio', Papa Damaso (IV d.C.) fa incidere su pietra i nomi di alcuni martiri, che poi verranno trascritti nei codici. In due fra le più antiche occorrenze, Varrone Res rusticae 3. 16. 4 e Cicerone Pro Archia poeta 25, il termine è sinonimo di carmen parvum: non può tuttavia essere considerato sotto il capo 1, perché si danno epigrammi di 40-50 versi. Che la brevità, in processo di tempo, fosse diventata caratteristica precipua e ineludibile dell'epigramma sappiamo da Marziale, il quale racconta di essere stato criticato per essere troppo verboso (Epigrammata 1. 110. 1); ma è proprio questo autore che, con la fortuna delle proprie composizioni, rende canonica tale caratteristica associata all'arguzia, al fulmen in clausula.
3. Forme brevi dovute a memoria selettiva: epitomi (ad es. Livio, Floro il cui stile conciso ben si adatta al genere), autoepitomi (ad es. Lattanzio), breviaria, periochae, excerpta, florilegi, antologie.

 

Emilio Torchio