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Mefistofele: un'escursione alpinistica all'inferno

 

Mefistofele fa pensare a un'opera del Seicento, sia per il numero dei personaggi e dei cambi di scena, sia per la disinvoltura con cui strapazza le unità aristoteliche, sia perché il protagonista è il diavolo, come nel Sant'Alessio di Stefano Landi e nelle sacre rappresentazioni. Un bel prologo in cielo, come non se ne vedevano dai tempi delle opere barocche, e un'escursione alpinistica all'inferno, a quella specie di inferno capovolto che è il Broken, luogo di macabri convegni stregoneschi. La materia di un libretto simile la poteva fornire solo il Faust di Goethe, inclassificabile e non rappresentabile: che cos'è? Poema, romanzo, tragedia?
L'idea di metterlo in musica, balenata a un Rossini in piena nevrosi e reduce dal Tell, era venuta al giovane iconoclasta Arrigo Boito, letterato e musicista, che si riconosceva nella cerchia degli scapigliati milanesi, a fianco dell'amico Emilio Praga, poeta e drammaturgo, e del compagno di Conservatorio Franco Faccio. Fresco del diploma di composizione, nei salotti delle solite contesse Arrigo suonava al pianoforte gli stralci della scena iniziale dell'opera non ancora terminata: un quadro preraffaellita infarcito di cori angelici e penitenziali, nel quale fa capolino la voce di Mefistofele. Declamato magniloquente studiato sulla parola e gestacci vocali sono accompagnati da una specie di tic strumentale, un temino sbilenco e claudicante. Intanto Boito scriveva anche il libretto, come qualche anno prima aveva fatto Berlioz alle prese con un altro ingombrante poema, l'Eneide. Anche se non vide a teatro il Faust di Gounod, di cui conosceva lo spartito, durante un soggiorno parigino il compositore ebbe occasione di irrobustire le proprie competenze faustologiche e di leggere la traduzione francese del poema di Goethe, alla quale si ispirò direttamente. Il progetto era quello di musicarlo "tutto", anche la seconda parte complessa e intricata di scene e personaggi: sarebbe stato l'esempio dell'"arte dell'avvenire", non compromessa con le ragioni di cassetta alle quali si adattavano i mestieranti italiani, schiacciati dalla figura di Verdi. Un'opera aggiornata, impegnata, aliena da quelle che Boito chiamava "formule", ovvero i pezzi chiusi che soffocavano un compositore impegolato nelle convenienze teatrali.
Boito non è stato il solo, nella storia del melodramma, a confrontarsi con un'opera letteraria smisurata. Nel secentesco Palazzo incantato il cardinale Rospigliosi insaccava tutto l'Orlando furioso nel giro di tre atti, a furia di analessi e prolessi, ma è la drammaturgia musicale del Novecento, libera dalle convenzioni e addestrata alle tecniche del montaggio filmico, che rende possibili le "opere mondo" in musica: Guerra e pace di Prokof'ev, Ulisse di Dallapiccola, King Priam di Tippett, Doktor Faustus di Manzoni. (Non c'è ancora la traduzione musicale dell'Ulysses di Joyce, anche se forse Berio ha accarezzato l'idea per tutta la vita e lavorandoci di straforo, per depistarci, e tutte le sue opere sono trascodificazioni da quello, cui all'ultimo momento uno scrittore scelto toglieva il testo per imbastirne uno diverso).
Les Troyens di Berlioz e Mefistofele si trovano a un punto di svolta. Concepite nella medesima temperie culturale, instaurano un rapporto totalizzante nei confronti del testo d'origine; nell'intenzione degli autori, esse si situano sfrontatamente al di fuori delle convenzioni del melodramma. Trascodificazione totale dell'opera mondo e rifiuto del melodramma coincidono, in favore di una nuova concezione dello sviluppo drammatico e della sintassi musicale. In entrambi i casi si sperimenta un'inedita forma spettacolare: quadri isolati che traspongono luoghi cruciali dei poemi, organizzati in successione paratattica. Salta il principio della classica liaison des scènes, in favore di un impianto drammaturgico in cui i gesti e la parola sono pensati in contrappunto con i movimenti coreografici: nelle numerose scene di massa, cantate, agite e danzate su piani diversi, Mefistofele attinge alla tradizione del grand-opéra francese e a quella del coreodramma di Salvatore Viganò, anticipando l'opera-ballo degli anni Settanta del secolo, alla quale Verdi si ispirerà per Aida.
Ci sono due Mefistofele. Uno cadde alla prima rappresentazione scaligera (1868), sommerso dai fischi di un pubblico esasperato dalla lunghezza dello spettacolo. Ci rimane il libretto, che ancora oggi sembra quello di un happening d'avanguardia. Una miriade di personaggi minori si staccano dai gruppi del coro per sintetizzare alcuni stralci del poema in poche battute; gran parte della vicenda del primo e secondo Faust viene esposta in cinque atti, spesso suddivisi in quadri autonomi, cui si aggiunge un intermezzo sinfonico cantato. Per dare un'idea: la prima parte del quarto atto, nel palazzo dell'Imperatore, vede Mefistofele travestito da buffone di corte avanzare di fronte al sovrano, cantare una ballata, duettare con l'Astrologo, istigare la folla fino a che non danza invasata. Il diavolo diventa una specie di direttore d'orchestra, "coi gesti bizzarri da maestro di cappella" dirige la folla, fa apparire un teatro nel quale si rappresenta la vicenda di Elena e Paride, si intrufola nella buca del suggeritore. Faust si innamora di Elena e si slancia sul palcoscenico. Il teatro esplode. "Tenebre, confusione, grida. Faust è svenuto. Mefistofele lo trascina pe' piedi entro la buca del suggeritore, e di là scompaiono tutti e due".
Tutto questo non c'è nel secondo Mefistofele, frutto di varie revisioni effettuate a partire dalla ripresa di Bologna (1875). La partitura è tagliata e riscritta. L'impianto drammaturgico è addomesticato, i personaggi sfoltiti, le sezioni di ragionamento in musica cadono, così come cadono interi quadri e l'intermezzo. Concepita a blocchi giustapposti e in contrasto reciproco, l'opera è composta da un prologo, quattro atti, un epilogo. Nel secondo Faust rimane solo il Sabba classico, mentre la figura di Margherita assume maggiore importanza: le spettano i numeri tradizionali, le arie e un duetto con Faust. Il poema di Goethe ora è solo un pretesto. Scomparsa l'idea della traduzione totale, la nuova opera diventa la celebrazione di una forma artistica in declino, l'antico melodramma italiano, di cui il III atto ripropone le immarcescibili "formule" con un occhio nostalgico a Traviata: Margherita canta un'aria strofica delirando e vocalizzando ("L'altra notte in fondo al mare") e muore come Violetta, dopo aver cantato il sogno della fuga impossibile in una specie di "Parigi, o cara" riscritta alla D'Annunzio ("Lontano, lontano, lontano").

 

Marco Emanuele (da www.sistemamusica.it)