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Opera aperta: prospettiva sulla poetica contemporanea

 

Per avvicinarsi con maggiore consapevolezza alla musica del Novecento è forse necessario avere una visione della trasformazione del pensiero dell’uomo attraverso i secoli, di come cioè, una visione di filosofia forte sia cambiata in visione debole. Da Platone a Hegel i pensatori cercarono di definire ogni parte dello scibile umano in maniera coerente: la concezione dell’anima di Platone derivava in maniera necessaria dalla sua metafisica così come la politica derivava dall’etica e l’estetica dalla filosofia della conoscenza. Questa organicità era accompagnata anche da una visione teleologica: la parola deriva dal greco telos che significa fine, e noi pensiamo subito alla freccia che tende verso un punto. In questo tipo di visione tutti i sistemi avevano un fine: il caso più emblematico è il cristianesimo dove la meta è la vita eterna, il regno dei Cieli. Sia la storia, sia l’esistenza umana sono proiettati verso questo scopo ultimo. Visivamente si può rappresentare questa concezione come una linea o una strada dritta. Essa tuttavia entra in crisi dopo Hegel e dopo Marx quando cominciano a crollare i grandi Imperi e a nascere gli stati cioè tante piccole entità; quando i filosofi non si occupano più dell’intera conoscenza, ma di settori di sapere. Non è più un apparato concettuale forte, ma tanti deboli. Non ci sono più certezze, ma opinioni. La logica aristotelica che, comunque sia, aveva retto le strutture della conoscenza per oltre 2000 anni viene messa in crisi dalle ricerche di Russell, e la grande innovazione portata da Freud risiede nel fatto che i sogni e la follia non sono irrazionali come si pensava, ma hanno una logica differente da quella usata per le scienze. All’uno vengono sostituiti i molti. Non solo. Un altro punto importante riguarda il confine di questi molti che non sono cortine di ferro, ma membrane permeabili che permettono uno scambio, un dialogo, un’integrazione. Pensiamo ai quadri degli impressionisti dove le figure non sono definite, ma i colori sembrano sfumare gli uni negli altri. Si passa così da una logica del monologo a quella del dialogo, della complementarietà. Tutto è di per sé indefinito e ha bisogno di interagire con un’altra entità per arrivare a ciò che Aristotele chiamava "in atto". Dopo la seconda guerra mondiale nasce il concetto di sistema in cui il sistema non è la somma dei suoi elementi, ma il risultato della loro interazione: se una perturbazione esterna cambia un elemento del sistema si produce una reazione a catena che modifica tutti gli altri componenti e conseguentemente la configurazione di tutto il sistema e quindi il suo significato. Visivamente il panorama cambia: da una strada dritta ci possiamo raffigurare un piano in cui varie figure geometriche si intersecano, dove dalla via maestra si diramano tanti piccoli sentieri a volte interrotti, a volte confluenti l’uno nell’altro, a volte che ritornano nella direttrice principale. Il disegno quindi non è predefinito, ma lo vediamo evolvere. Un esempio di questa nuova logica è l’ipertesto dove non vi è più un percorso di lettura che ha un inizio e una fine, ma dove il fruitore decide continuamente il cammino da percorrere. Se vogliamo, questa idea deriva da Nietzsche che nella teoria dell’eterno ritorno dell’identico, pone l’accento sul momento decisionale attribuendo all’uomo una responsabilità che prima non aveva perché il suo destino era determinato da una visione unidirezionale della storia e della esistenza. L’ultima produzione di Luigi Nono riprenderà questa centralità dell’uomo anche se in una concezione ben diversa da quella di Nietzsche: Caminantes, no hay caminos, hay que caminar (Voi che camminate, non esiste una strada ma solo il camminare), che riprende una frase del poeta Antonio Machado che Nono vide in una scritta murale a Toledo. Il traguardo ha perso ogni importanza; ciò che conta è il percorso che si fa con i cambiamenti di cammino, le incertezze, le variazioni del ritmo, del passo. L’idea di perturbazione, cioè di un evento esterno che cambia il sistema ci porta a parlare di apertura. Il sistema non è più un oggetto definito in se stesso, ma cambia in rapporto col mondo esterno. Anche l’opera d’arte non sarà più un fondamento forte, ma avrà sempre bisogno dell’altro per stabilire la propria identità. L’altro può essere o l’interprete, o il fruitore. Per questo il Novecento ha dato così importanza al momento interpretativo (ogni fruitore è un interprete perché interagisce con l’opera e le dà un significato). Tutto è divenuto consapevolezza da parte degli artisti che tendono a non finire l’opera lasciandola così, come un fascio di possibilità aperte. Una della tendenze che si è sviluppata come sperimentazione a Darmstadt alla fine degli anni cinquanta, è la musica aleatoria che è proprio l’esempio di musica aperta: l’alea prevedeva che il compositore gettasse dei germi che l’interprete doveva accogliere e organizzare. In pratica scriveva dei pezzi staccati e l’esecutore decideva l’ordine col quale eseguirli. Ogni interpretazione diveniva quindi un’opera, un evento unico e irripetibile. L’importanza attribuita al momento interpretativo non riguarda solamente la musica contemporanea: lo stato della poetica di una determinata epoca non è relativo soltanto alla sua produzione artistica, ma anche alla lettura di quella del passato. Così ci si mette in dialogo con le opere delle epoche precedenti che in questo modo divengono a loro volta aperte, aperte ai cambiamenti dei loro significati, aperte a nuovi modi di essere eseguite e recepite.

 

Stefania Navacchia (da www.orfeonellarete.it)