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Paesaggi dell'anima I Lieder di Hugo Wolf

 

Hugo Wolf non è una personalità facile da decifrare: sembrerebbe il prototipo del motto "genio e sregolatezza", l'incarnazione ideale del Wanderer romantico, di un Wanderer però ormai in ritardo di cinquant'anni e quindi ancor più spaesato e insoddisfatto, in questo senso immagine del decadente in conflitto con il proprio tempo.
Scavando più da vicino, questa silhouette dai contorni così sicuri comincia a rivelare sfaccettature insospettate, non di rado contraddittorie, certamente capaci di ridimensionare approssimazioni e luoghi comuni, che nascono soprattutto dalla scarsa dimestichezza con un autore che non ha avuto vasta circolazione al di fuori del mondo austro-tedesco. E non l'ha avuta non per disistima o per partito preso, ma per il fatto di essere legato a un unico genere, quello del Lied per canto e pianoforte, che l'ostacolo della lingua rende di per sé ostico agli stranieri; aggiungiamo poi uno stile variegato, duttile, denso di innovazioni e sottintesi, e sarà evidente come l'approccio diretto, la confidenza con Wolf non sia acquisizione facile.
Wolf presta alcuni lineamenti all'Adrian Leverkühn di Thomas Mann, lo sfortunato compositore protagonista del Doktor Faustus: la pazzia latente che esplode portando alla morte, le improvvise escandescenze… Allusioni fondate e convalidate, che, mescolandosi però, sotto la penna di Mann, a elementi riferiti a Schoenberg e a Mahler, possono fuorviare riguardo all'autentico stile wolfiano. Che è asciutto, controllatissimo, lucido e vivace: può condensare abissi di disperazione nel volgere di un minuto e aprirsi con la stessa immediatezza al più beato dei sorrisi. Horror vacui, melancholia, Volkslied, spensieratezza: lo sguardo, e soprattutto il cuore di Wolf coglie tutto e lo trasforma in Lied, con una flessibilità d'accenti che rivela il dominio assoluto della forma e della materia. Persino nell'organizzare la materia procede con ordine: prima si dedica a Eichendorff, poi a Mörike, quindi a Goethe, e ogni volta squaderna decine di Lieder, veri ritratti musicali di ogni singolo poeta, visto naturalmente dall'angolazione libera e soggettiva del compositore.
Poco diplomatico per natura, preso oltretutto nella morsa del dissidio allora furioso tra neotedeschi e formalisti, Wolf patì molto per via delle inevitabili incomprensioni e generalizzazioni con cui lo si giudicò: d'altra parte, ogni grande artista crea problemi ai contemporanei e ha bisogno di un certo periodo per essere compreso e assimilato. Suoi ammiratori erano soprattutto poeti, uomini di lettere che attribuivano grande importanza alla magistrale flessibilità prosodica, alla cosiddetta "naturalezza" dello stile wolfiano. Che poi dietro a questa naturalezza si nascondesse un'alchimia calcolatissima, un cesello impeccabile, questo non lo potevano dimostrare né analizzare perché non erano musicisti. Hermann Bahr in testa, e poi personaggi come Hausegger e Liliencron lo amarono profondamente e ne captarono più di un connotato: il loro approccio un po' naïf, però, condizionò la letteratura critica, costruendo l'immagine un po' riduttiva dell'artista che crea in modo istintivo e irriflessivo abbandonandosi alla suggestione del testo.
Più profonde, invero, sono le connessioni di Wolf con la letteratura del tempo. Non si tratta sempre di legami consapevoli, ma di un'atmosfera comune, che determina innegabili assonanze con Proust, Roth, Hofmannsthal, Schnitzler. E poi c'è il recupero del Volkslied quasi come oggetto d'arte nei due canzonieri, basati su antichi testi popolari italiani e spagnoli che Heyse aveva recentemente tradotto in tedesco. Profumo di Sud, quindi, accanto al crepuscolo dell'impero asburgico, alle malinconie dell'io che ha smarrito la propria identità: apparenti contraddizioni, che la scrittura flessibile e penetrante di Wolf sa armonizzare, rivelandosi classica e insieme moderna, proprio nella sua capacità mimetica e metamorfica, nel gioco di maschere, nelle coperture spesso ironiche che comporta. Ancora un punto viene messo in evidenza: la presenza della ballata, sorella del Lied, ma segnata da toni più immaginifici, e scopertamente narrativi. Wolf mette in musica ballate di Goethe e di Mörike, un gruppetto per così dire trasversale che viene estrapolato dalle singole raccolte e analizzato in un capitolo a parte. Ciò permette di mettere a fuoco con più agio la situazione della ballata: oggetto di interessi antiquari e filologici, ma anche (da parte di artisti come Fontane o Hofmannsthal) pretesto per un rinnovamento nel segno dell'allegoria.
In generale, il lavoro non intende ricostruire la biografia di Wolf (in Italia è già consultabile l'ottimo lavoro di Erich Werba tradotto da Laura Dallapiccola); sono comunque numerosi i riferimenti a lettere e saggi di difficile consultazione per lo studioso italiano. I Lieder non vengono analizzati singolarmente, se non quando questo serve a suffragare o esemplificare un assunto: ma vengono presi insieme, in un discorso che mira soprattutto a evidenziare la personalità di Wolf in riferimento alla sua epoca e allo spirito asburgico, in riferimento alla cultura a lui contemporanea e in riferimento all'intera parabola ottocentesca del Lied, cercando anche di definire il difficile e serrato rapporto fra Lied e teatro.

 

Elisabetta Fava (da www.sistemamusica.it)