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Pagliacci: bugie di comodo, eclettismo di sostanza

 

La prima vicenda biografica di Leoncavallo appare costellata di piccole e grandi bugie che il compositore ribadì con tenacia ancora in occasione del suo articolo per gli Illustri italiani contemporanei di O. Roux, pubblicato nel 1908.
Bugie sulla sua data di nascita, vanitosamente posticipata di un anno (dal 1857 al 1858) nel probabile intento di eguagliare, almeno sul piano anagrafico, il rivale di una vita, Puccini. Bugie sulla laurea in lettere con Giosué Carducci conseguita, appena ventenne, a Bologna - dove pure risiedette frequentandovi l'università - e mai registrata nell'archivio dell'ateneo petroniano… Bugie, per concludere, sulla genesi di Pagliacci (1892), l'opera che gli diede la celebrità dopo i due tentativi "wagneriani" di gioventù (Chatterton e I medici) rappresentati solo in seguito, sull'onda del successo riportato dal suo terzo lavoro per il palcoscenico. Certo, Leoncavallo dovette avere non pochi problemi di autostima e - a quanto sembra - anche un po' di complessi culturali, vista la sua smania di presentarsi come esponente della nouvelle vague intellettual-compositiva con tutte le carte in regola. Ma al giorno d'oggi, ferme restando le debolezze dell'uomo, appare più significativa la terza bugia, un elemento probatorio in grado di chiarire le intenzioni estetiche del musicista… Il quale, appunto, insistette sempre sulla tesi dell'origine autobiografica di Pagliacci rinviandola a un delitto di cui era stato testimone da bambino e che il padre, magistrato a Cosenza, era stato chiamato a giudicare. Uno "squarcio di vita" vissuta che intendeva ridimensionare a livello di cartolina illustrata persino il conclamato verismo di Cavalleria rusticana, derivato da una fonte pur sempre letteraria (l'omonima novella di Giovanni Verga).
Eppure, una trentina circa d'anni or sono, si è potuto dimostrare che il clown assassino, l'incubo notturno del compositore fanciullo, il precursore delle malefiche creature di Stephen King, non era mai esistito se non nelle sue fantasticherie (di adulto). E che l'omicidio giudicato da Leoncavallo senior era consistito (atti processuali alla mano) in un generico delitto d'onore causato dal fatto che l'ucciso, possidente di Montalto Uffugo, aveva percosso un giovane servo dei suoi uccisori. Nessun triangolo amoroso, nessuna moglie fedifraga e, soprattutto, nessun pagliaccio uxoricida. Tutti ingredienti presenti, invece, nella Femme de Tabarin di Catulle Mendès (Parigi, Théâtre Montparnasse 1887), con in più l'artificio del "teatro nel teatro" e la trovata del pubblico che, credendo a una finzione scenica, sottolinea con applausi l'interpretazione dell'attrice appena assassinata. Leoncavallo, ovviamente, aveva visto questa pièce parnassiana nella capitale francese, dove si trovava per lavoro, e l'utilizzò come base del suo progetto "verista", uscendo poi incolume dalla causa per plagio intentatagli dal furibondo drammaturgo transalpino… Certo, se la tesi dell'origine autobiografica di Pagliacci risulta sconfessata dai fatti e, per converso, prende vigore quella del "prestito" di repertorio, come avveniva normalmente nei libretti del primo Ottocento, la posizione del nostro compositore sulla scena melodrammatica di fine secolo andrebbe alquanto riconsiderata. Sgombrato il campo dall'equivoco dell'opera verista, una definizione più che mai di facciata (in Pagliacci oltretutto, sia nel testo che nella musica, latitano le iniziative per ambientare folcloricamente la vicenda, altro elemento tipico di un'opera che aspiri a definirsi tale, mentre la Calabria fa solo da cornice pretestuosa), egli rischierebbe di venire inghiottito dalle sabbie mobili dell'epigonismo verdiano e wagneriano. Con tanto di resti fossili di romanze e duetti d'amore affioranti dagli strati geologici della partitura e, nel contempo, la pretesa di creare un flusso musicale con sembianze di recitativo continuato, mentre l'orchestra assurgeva a nuove competenze descrittive… Ma, per fortuna, la cifra dell'operismo di Leoncavallo andava decisamente in altre direzioni, ancora oggi suscettibili, forse, di un serio approfondimento. Si tratta, in buona sostanza, di un eclettismo di marca affatto moderna, che accoglieva nella musica e nei testi il passato e, in pari misura, il presente facendo coesistere verdismo e wagnerismo con Carmen ed Emmanuel Chabrier, gli antichi versi sciolti e i nuovi martelliani à la Carducci con le atmosfere truculente e decadenti dei romanzi d'appendice (Invernizio e Salgari) che proprio allora incontravano i primi successi di pubblico.
E, a mo' di tessuto connettivo, il compositore riusciva a rivestire il tutto di una sostanza orchestrale rutilante e fonogenica, dove niente era lasciato al caso, con buona pace della pretesa immediatezza verista… Alla luce di questo, la bugia autobiografica dell'inizio ci sembra, quindi, perdonabile senza alcuna esitazione: si trattò, evidentemente, di una captatio benevolentiae imposta dallo spirito dei tempi, nulla di meno e nulla di più.

 

Marco Ravasini (da www.sistemamusica.it)