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Strauss, vagabondo della storia

 

Sono passati oltre cinquant'anni dalla morte di Richard Strauss (1864-1949), eppure la sua figura non ha ancora cessato di rappresentare per la critica uno scoglio pericoloso da evitare. Qual è il posto di Strauss nella storia della musica? Non è semplice dare risposta alla domanda, che ne implica immediatamente un'altra, più consistente: qual è il rapporto tra la musica di Strauss e il nostro mondo? A giudicare da come si è sviluppata la vita musicale nella seconda metà del Novecento, Strauss sembra essere un uomo largamente sopravvissuto al proprio tempo. Nessun compositore, perlomeno nessun nome in qualche modo significativo, ha ripreso il cammino dal punto in cui l'ha lasciato Strauss. Il suo sentiero musicale s'interruppe con lavori drammaticamente in fuorigioco, come Metamorphosen e il Duett-Concertino in fa maggiore per clarinetto e fagotto con orchestra d'archi e arpa. Il primo fu terminato il 12 aprile 1945 a Garmisch, qualche giorno prima della resa della Germania nazista; il secondo fu composto dall'anziano profugo nell'esilio di Montreux, alla fine del 1947. Metamorphosen è uno "studio" per 23 archi solisti, ma fu inizialmente concepito per un gruppo più piccolo (2 violini, 2 viole, 2 violoncelli e un contrabbasso). La versione "originale" - se è lecito il termine - è stata realizzata in seguito da Rudolf Leopold. In termini di pura poesia, è una musica talmente legata al destino di un'epoca da parlare con un linguaggio assolutamente aldilà del tempo. Non conosco altre opere che abbiano saputo esprimere meglio la tragedia di quei dodici, pazzeschi anni di follia distruttrice del nazismo. Metamorphosen è una marcia funebre - in effetti contiene anche una citazione esplicita dell'Eroica - addobbata con lo stile del contrappunto, un'immensa pavana danzata sui resti fumanti di una civiltà distrutta. Strauss non amava esprimere i suoi sentimenti in prima persona, ma in questo caso non poté evitare di mettere a nudo il cuore. Nel Duett-Concertino invece lo ritroviamo con il volto nascosto da una maschera veneziana. In quale altro modo si potrebbe giudicare la leziosità esagerata, la finta nostalgia d'un Settecento prezioso, esibito in quegli anni tremendi con un gioco di rispecchiamenti assurdi, come un falso De Chirico dipinto da De Chirico stesso? L'amarezza di Strauss per la fine di un mondo, già dichiarata in modo definitivo con Capriccio, si traveste da giocoliere in questa pagina d'artigianato altissimo, ma l'effetto è un po' deprimente. Il dolore, se non ha leggerezza, è solo rancore e sconfitta. Meglio ricordare Strauss con gli anni eroici della gioventù e con la grazia delle sue prime melanconie. Il Rosenkavalier ha accompagnato Strauss per tutta la vita, fino alla mesta cerimonia del suo funerale. Quest'opera perfetta ha dato vita a un'intricata selva di partiture, fin dal debutto di Dresda, nel 1911. Nel catalogo si trova la Einleitung und Walzer aus Der Rosenkavalier (1944, revisione di una suite di valzer realizzata nel 1910-11 da Otto Singer). Un'altra suite, tratta dall'atto III, fu preparata da Strauss nel 1910-11. Poi esiste la partitura per il film di Robert Wiene, composta nel 1925. Infine troviamo la Suite aus der Oper Der Rosenkavalier, scritta nel 1945, in un momento molto delicato. Strauss aveva bisogno di ripulire la sua immagine pubblica, come altri artisti implicati col nazismo. Ricorse perciò all'opera prediletta, che riportava la sua figura a un'epoca estranea alle vicende politiche della guerra. La Suite fu eseguita nel 1946 a Vienna da Hans Swarowsky e nel 1947 a Londra, in occasione di un omaggio a Strauss voluto da sir Thomas Beecham in segno di riconciliazione storica. Racconta, in un unico movimento, la commedia viennese di Hoffmanstahl: la camera da letto della Marescialla, il salone di casa Faninal, la locanda fuori Vienna. La musica è gradevole e leggera, senza troppe pretese. Chi ha amato in teatro quel gioioso gorgo di valzer in cui l'Occidente s'inabissa, non disdegnerà di gettare uno sguardo affettuoso a questa cartolina musicale, dove posa al centro il frivolo Barone Ochs con il piede appena sollevato nello slancio di un'ultima danza. Lontanissimo nel tempo, la Burleske in re minore per pianoforte e orchestra risale al 1886. Pagina giovanile, certo, ma non trascurabile. La musica è dell'Ottocento: ricca, corposa, appassionata. Il pianoforte è ancora quello di Schumann, per la densità dell'armonia, e di Liszt, per il tumulto di scale e doppie ottave. Ma qualche rondine annuncia già una nuova stagione, specie nel caparbio moltiplicarsi del ritmo barbarico della cellula iniziale. Un pianoforte che dialoga con le percussioni! Quanto tempo durerà ancora, l'Ottocento?

 

Oreste Bossini (da www.sistemamusica.it)