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Van Morrison

 

Scrivere dei dischi di Van Morrison significa perdere il proprio tempo. Chi lo conosce assume una delle due posizioni estreme: o ama lui e tutto quanto egli abbia prodotto; oppure lo detesta (chiedendosi cosa mai ci troveranno quegli altri di bello).
L'osservazione più comune di fronte al nome "Van Morrison" è ancora, purtroppo, la seguente: "Lo conosco! è quello che morì... cantava in quel gruppo, ora non mi ricordo il nome, aiutami... Hanno fatto anche un film, mi sembra...".
Le probabilità che una persona che parli in questi termini possa in seguito innamorarsi della musica di Van (come anche la probabilità che legga questa pagina) sono basse come le temperature di Mosca in gennaio.
All'estremo opposto, c'è chi lo segue da sempre, e questi avrà sicuramente già trovato il proprio paradiso, dove è stato scritto tutto in materia di discografia, testi, foto, aneddoti e commenti: non si potrebbe chiedere di meglio. La cosa più utile l'ho già fatta: darvi l'indirizzo giusto. Se siete seriamente intenzionati, saltate là. Se invece amate i riassunti, o preferite la lingua italiana, o volete conoscere il mio parere, potete continuare a leggere quanto segue.
Van Morrison ha sfortunatemente lo stesso cognome del leader dei Doors (il cui nome è Jim), ma è apparso prima di lui sulla scena musicale; non è ancora morto, ha rilasciato una lunga serie di dischi, molti dei quali capolavori assoluti, e speriamo ce ne doni ancora altri. Fino agli anni '80, a dire il vero, nessuno includeva Van Morrison fra i più grandi del rock (i Dylan, i Lennon, i Young...). Gli si riconosceva una voce unica, gli si attribuiva la firma di un classico come "Gloria", ma non era mai stato un personaggio da classifica o un nome per riempire gli stadi. I giornali specializzati ne parlavano poco non perchè non fosse bravo, ma perchè non era abbastanza famoso (metterlo in copertina non tira le vendite di una rivista). Succede tante volte che un cantante diventi famoso quando è ancora giovane e che sulla scia della notorietà acquisita riesca a vivacchiare per il resto della carriera. Nel caso di Van questo non ha funzionato. A 23 anni pubblicò un album osannato dalla critica, dal titolo "Astral Weeks". Se prendete qualsiasi lista degli album più importanti del rock, troverete questo titolo. Da allora la critica ha preso come metro di giudizio questo capolavoro e qualsiasi cosa che non fosse identica veniva considerata inferiore. Ovviamente Van ha continuato per la propria strada, senza mai clonare "Astral Weeks", e la parte più "acculturata" della critica diceva che Van aveva smarrito l'ispirazione. Faceva capire che, se fosse morto giovane, sarebbe diventato un mito, ma da vivo non era un gran personaggio. L'altra parte della critica, quella meno "acculturata" che guarda solo le classifiche, non si è proprio occupata del fenomeno, in quanto Van le classifiche le ha abitate ben di rado.
Il nostro ha continuato imperterrito a sfornare capolavori in ogni decennio della sua carriera, così a metà degli anni '80, mentre i suoi colleghi coetanei o erano spariti dalla scena o fornivano prove penose, egli ha ottenuto i giusti riconoscimenti. Da allora credo che abbia venduto molti più dischi e ed i suoi concerti siano molto più affollati, mentre di capolavori ne ha fatti meno. Non ha mai smesso, però, di fare buona musica e di farsi attorniare da bravi strumentisti. La stampa si è adeguata e da allora lo considera con il dovuto rispetto. Il rispetto e l'amore non hanno impedito però a più di un critico di scrivere che tutti i suoi dischi sono uguali, e perciò inutili. L'osservazione non è infondata. Una canzone di Van la si riconosce dopo tre secondi. Però le differenze ci sono. Per prima cosa Van ha continuamente cambiato i musicisti che lo accompagnano e con essi il suo sound. In piccola misura anche lui ha seguito le mode del momento, e questo nei dischi si sente. A partire al 1988, poi, ha pubblicato meno album solisti preferendo progetti collaterali, in duo o in trio con colleghi e amici. La verità è che Van è stato uno dei rocker più continui e coerenti, con scarsi cedimenti commerciali. Per molte volte ha spiazzato i suoi fans con cambi imprevedibili di stile fra un album ed il successivo. Ha pubblicato quasi un album all'anno per oltre tre decadi. E' facile, fra tanti album, trovarne due o tre simili. Le somiglianze sono ancora maggiori fra le liriche, le cui tematiche sono sempre le stesse: i ricordi d' infanzia, l'Irlanda, il misticismo, la ricerca interiore...
Una volta specificato tutto ciò, ammetto che non mi dispiace che i suoi dischi sembrino tutti uguali. E' una caratteristica dei grandi bluesman neri che la loro produzione sia uniforme dall'inizio alla fine. Van ha la pelle bianchissima e non è un bluesman, ma io lo considero uno dei più grandi bluesman neri. Come tutti i grandi, non può essere inquadrato in nessun genere. Molti ne hanno ripreso le canzoni ed imitato lo stile. (Il caso più evidente è quello dei Black Sorrows, un gruppo australiano che non mi dispiace).
Baserò le mie recensioni sulle stesse dichiarazioni di Van Morrison, ripetute in tutte le sue interviste. Non mi ricordo di nessun artista tanto disincantato e demitizzante nei confronti della propria opera. Se vi sembrerà che io sia troppo cinico e materialista, è tutta colpa sua. Di una persona che si chiama fuori, che dichiara di non conoscere e di non essere interessato al rock.
Nato a Belfast nel 1945, George Ivan Morrison era musicista professionista già a 16 anni. Suona sax, chitarra e armonica, (in seguito anche le tastiere), senza eccellere in nessuno strumento. Il suo esordio discografico avviene presto, nel 1962, come sassofonista su uno sconosciuto 45 giri dei Monarchs, fatto mentre lui si trovava in Germania (proprio come i Beatles). Tornato in patria, forma nel 64 i Them, di cui è cantante e leader, per suonare una musica simile a quella dei Rolling Stones dello stesso periodo. Rispetto ai colleghi inglesi loro hanno qualche strumento in più (sax ed organo) che li avvicina al Ray Charles giovane. Il successo piove letteralmente addosso al giovane Van perchè quella musica rappresenta la moda del momento. I Them durano pochissmo: decidono di sciogliersi dopo il primo album. Van, che fino all'anno prima dormiva negli autobus o nei parchi, ritiene conveniente, insieme al bassista, di far valere il suo contratto con la Decca. Questa, a sua volta, non vuole lanciare un nuovo gruppo con un altro nome. I dischi usciranno ad uscire sotto il nome "Them", con l'aiuto di altri musicisti, ma i Them non avranno mai una formazione stabile. Poco dopo anche Van lascia, senza che il gruppo scompaia.
E' noto quanto le discografie del periodo siano imbrogliate. I brani migliori venivano pubblicati su 45 giri. Gli album uscivano in edizione differente sui mercati inglese ed USA. A complicare il quadro si aggiungeva un prodotto ibrido chiamato EP (extended play). Considerando che la permanenza di Van fra i Them è stata breve (2 anni), è possibile condensare il necessario in un unico CD, quindi è preferibile acquistare una compilation anzichè gli album originali. L'unica attenzione è che i brani inclusi siano relativi al periodo 1964-1966, a meno che non siate interessati a quello che hanno fatto i Them superstiti. Delle tante raccolte, non sono in grado di giudicare quale sia la migliore. Nella scelta orientatevi sulla casa discografica più seria e non date peso alle rimasterizzazioni, in quanto le versioni originali suonano già abbastanza bene. Gli hits che sicuramente non mancano si chiamano: "Baby Please Don't Go", "Here Comes the Night", "Gloria" e "Mystic Eyes". Sono brani eccitanti ed arrabbiati, resi con una attitudine punk. Capita ancor oggi di ascoltarli nei concerti dell'irlandese. Altre canzoni meno importanti ma comunque interessanti sono, fra le tante, "The Story of Them", "Hey Girl" e la cover della dylaniana "It's All Over Now, Baby Blue". Sono tre brani della produzione più tarda, in cui, al posto del R&B arrabbiato degli esordi, compare un pop sognante e malinconico. Sono i segnali premonitori del seguito. La musica dei Them, in generale, suona acerba, come acerbo era il rock di quegli anni e come erano, dal punto di vista musicale, i componenti della band. La loro produzione è inferiore a quella dei più famosi gruppi inglesi del periodo solo quantitativamente, vista la fine precoce. Parte del merito va ai session-men che, secondo le usanze dell'epoca, sostituivano i titolari per le incisioni in studio.
Blowin' Your Mind (1967)
Una volta fuoriuscito dai Them, Van non tenta di formare un nuovo gruppo, vuole fare il cantautore. Lavora molto per sviluppare un proprio genere ed un proprio stile, mettendo le distanze fra sè ed il passato prossimo. Il suo cammino è tutt'altro che lineare. Viene scritturato da una neonata etichetta americana, la Bang, che vuol fare di lui un cantante commerciale. Il primo tentativo è il singolo "Brown Eyed Girl", una bella composizione con un arrangiamento più morbido di quanto non capitasse con i Them. In pratica Van è costretto a scriverla spinto dalla fame. Il pezzo entra nella top ten USA e la casa discografica cerca di sfruttarne il successo con un album. All'insaputa dell'autore, esce "Blowin' Your Mind", che è soltanto un pasticcio. E' il frutto di un paio di session eseguite senza sufficiente preparazione. Van non aveva voce in capitolo nè su quali pezzi suonare, nè sugli arrangiamenti, nè sulla scelta degli strumentisti. Lui avrebbe voluto suonare da solo, invece gli appiccicavano venti session-men. Gli avevano fatto credere di stare registrando quattro singoli, invece ne vien fuori un album. Bisogna anche dire che lo stesso autore aveva ancora bisogno di tempo per raggiungere il proprio stile.
Nel disco si trovano tuttavia due perle: la citata "Brown Eyed Girl" e la lunga "T.B. Sheets". Queste due canzoni rappresentano le due faccie di Van. La prima è un pezzo allegro e ritmato. La seconda narra una storia completamente inventata di un tizio che visita in ospedale un' amica malata di tubercolosi. Per la prima volta Van usa per i testi lo stream of consciousness, la tecnica letteraria inaugurata da Joyce. Invece della classica narrazione, vengono esposti tutti i pensieri che passano attraverso la mente dl protagonista. A causa di questa tecnica particolare tutti crederanno che si tratti di un brano autobiografico.
Subito dopo questo incidente, Van Morrison riesce a svincolarsi dalla Bang ed a passare alla Warner, dove gli verrà concessa ampia libertà artistica e dove in pratica inzia la sua vera carriera. La parentesi Bang avrà un lungo e noioso strascico. Ogni tanto apparirà una nuova compilation mista di brani noti ed inediti. In tutto vi saranno quattro album con etichetta Bang, sino al '91, anno in cui la CBS, divenuta proprietaria dei nastri, li pubblica per intero su di un unico CD ("The Bang Masters") che rappresenta tuttora il miglior acquisto possibile. Il discorso sembrava chiuso definitivamente, invece negli ultimi anni sono state rilasciate ulteriori inutili confezioni con ulteriori inediti... La cosa è terribilmente irritante perchè degli inediti dei periodi successivi, molto più interessanti, esiste una sola pubbicazione.
Astral Weeks (1968)
Sin dall'epoca dei Them Van passava ore ed ore, da solo o in compagnia, a cantare, comporre ed improvvisare con la chitarra. Improvvisava non solo le melodie, ma anche le parole sul momento. In questo modo cercava di tirar fuori dall'inconscio la materia prima delle sue composizioni. Le stesse avevano una struttura libera, senza la divisione fra strofa e ritornello. Da questa esperienza venne fuori il suo nuovo stile di cantare, che non spero di riuscire a descrivere. E' necessario ascoltarlo. Le canzoni si dilatano, e a volte si fermano su una frase o una sola parola ripetuta una decina di volte. Nell'economia dello stream-of-consciousness questa ripetizione corrisponde alla mente che si perde dietro i suoi pensieri. Per molti ascoltatori la cosa assumerà un'altra dimensione: quelle sono parole magiche che, se ripetute, hanno il potere di guarire i dolori dell'anima. Le parole delle canzoni di Van assumono il loro pieno significato solo quando sono cantate da lui. Il come vengono pronunciate ne muta o rovescia il senso; il ripeterle tante volte ne scava a forza tutti i significati nascosti. Alla pratica della ripetizione si sovrappone poi un armamentario di tecniche vocali per aumentare la drammaticità dell'esecuzione.
Nelle prime registrazioni questo modo di cantare e di comporre non era venuto fuori perchè le vecchie case discografiche non glielo avevano permesso. Durante il 1968 Van, sempre disperatamente senza soldi, trova un ingaggio per 75 dollari a serata. Con quella cifra avrebbe dovuto pagare anche la band e le spese di taxi. Giocoforza egli si risolve a farsi accompagnare solo da un flautista ed un bassista. Questa soluzione si rivela l'ideale per mettere in evidenza l'espressività del suo canto e per mettere a punto il prossimo album. Le composizioni erano pronte da mesi se non da anni. Per motivi di budget la registrazione avvenne in due soli giorni. La tecnica preferita di registrazione di Van è quella di registrare contemporaneamente tutti gli strumenti, col minimo di sovraincisioni, come in una jam-session o in un disco dal vivo. D'altronde, se canti su di una base pre-registrata, come fai a ripetere un verso ad-libitum? Questa tradizione inizia da questo disco e non è andata mai smarrita. Gli arrangiamenti di Astral Weeks sono spesso semplicissimi, ma estremamente originali. Hanno affascinato una moltitudine di ascoltatori, ma Van non hai mai rifatto un album con lo stesso organico. Dobbiamo essere grati al produttore Lewis Merenstein, che impose i session-men di sua fiducia. Un critico ha malignato che Merenstein, per risparmiare, chiamava i jazzisti, cioè giente abituata a registrare col minimo di prove e quindi di spese. La caratteristica più saliente nel suono è l'intreccio fra le chitarre acustiche (Van spesso si limita a suonare gli accordi), e il contrabbasso di Richard Davis (il preferito di Stravinsky!). Uno strumento solista fà il controcanto: principalmente il flauto, altrove violino o chitarra, sassofono soprano nella conclusiva "Slim Slow Slider". Un solo pezzo, "The Way Young Lovers Do", presenta un riuscito arrangiamento per fiati. In tutto l'album l'accompagnamento è affidato ai violini, sovraincisi. Alla batterista c'è Connie Kay, membro del Modern Jazz Quartet nonchè session-man in una infinità di dischi. Dirà l'autore nel 1997, a proposito di Astral Weeks: "Ciò che mi sorprende è che sia entrato nella storia del rock. Non c'è assolutamente nulla in esso di rock. Ci puoi trovare il folk e la musica classica e un pizzico di blues. Se lo analizzi non ci trovi nulla di rock, e questo era proprio il motivo per cui lo feci. Ne avevo abbastanza. Volevo allontanarmi dalla roba dell'era psichdelica, quando la musica soul stava diventando plastica. Quello che feci fu ritirarmi da qualsiasi cosa che conoscevo e andai all'estremo".
Le otto canzoni parlano di amore e di ricordi che ritornano in mente sotto forma di immagini scollegate. In questo Van ammette di essersi ispirato al lavoro di Dylan. I critici si sono sbizzarriti nel ricercare il significato di questi testi. In realtà ognuno è libero di trovarci quello che vuole. Si tratta di parole che uscivano da sole dall' inconscio dell'autore e neanche lui sarebbe in grado di spiegarle. Di sicuro c'è una storia d'amore, a lungo inseguito, infine trovato e poi perso.
Moondance (1970)
Tutti i critici reagirono entusiasticamente ad Astral Weeks. La rivista Rolling Stones lo nominò album dell'anno. Tutte belle parole, intanto Van era costretto a chiedere i soldi in prestito per mangiare. Infatti le vendite erano di appena 15.000 copie ed i discografici, forti di contratti capestro, bloccavano i pagamenti dei suoi diritti. Ancora oggi Van aspetta le sue royalties di "Brown Eyed Girl"! Passarono due anni prima che arrivasse il disco successivo. Van era pieno di dubbi e diffidava del mondo dell'industria discografica. Scoprì che, se le sue canzoni fossero state trasmesse per radio, avrebbe ricevuto le royalties direttamente dalla BMI (l'equivalente della nostra SIAE). Abbandonò le sperimentazioni e decise di fare della semplice musica soul, dove le canzoni avrebbero mantenuto la canonica forma strofa-ritornello. La svolta sarà sbalorditiva, ma non si può dire che Van si svende. Non è il tipo di fare qualcosa che non senta suo o qualcosa di cui si possa in seguito vergognare. Decise di fare a meno di un produttore, perchè non si fidava più di nessuno. Aveva inoltre bisogno di una band stabile con cui poter sia incidere che esibirsi. Scelse Jeff Labes al piano, John Platania alla chitarra, Garry Malabar alle percussioni Jack Schrorer a guidare i fiati. Come è troppo facile notare, quest'ultimo doveva ancora imparare a suonare. Questi quattro musicisti suoneranno con lui, ad intermittenza, per i successivi 4-5 anni. Il suono di Moondance, rispetto al contemporaneo soul di Aretha Franlin e Otis Redding, è molto più morbido e rilassato. Van si ispirava al soul gentile del defunto Sam Cooke, comunque in maniera del tutto originale. Il suo potrebbe essere chiamato "soul celtico", ma la definizione non aiuterebbe a capire. In confronto ad Astral Weeks tutto è più levigato, pulito, meno emozionale. Gli arrangiamenti dei fiati sono mosci e noiosi, a volte irritanti.
Le composizioni abbracciano più stili. Il pezzo che dà il titolo al disco è puro jazz, come composizione e come esecuzione. "And It Stoned Me" sembra uscita del disco precedente. "Crazy Love" è una tenera nenia sussurrata in falsetto. "Brand New Day" è un gospel appassionante, con piano e coriste in primo piano e sassofonisti in castigo (per fortuna!). "Caravan" e "These Dreams of You", registrate dal vivo tre anni dopo, saranno perfette, ma qui sono troppo fredde. "Into the Mystic" è una sognante ballata rovinata, come al solito, da un breve intermezzo dei sassofoni. Nulla di personale, credetemi. La colpa io non la dò a Jack Schrorer, io la dò al suo insegnante! Gli ultimi due pezzi son puri riempitivi di nessun valore. I testi sono brevi ed ottimistici: Van era da poco felicemente sposato. Moondance è l'album più sopravvalutato della carriera di Van Morrison. In realtà egli stava ancora imparando a produrre un disco. Comunque sia, dopo questo disco i suoi problemi di sussistenza furono risolti.
His Band and the Street Choir (1970)
Sfortunatamente non sono in possesso della intera discografia. Per i dischi mancanti, di cui questo è il primo, troverete poche note informative ed un link ad una recensione esterna. Spero naturalmente di poter tappare personalmente tutti i buchi in futuro.
Il pezzo forte di questo album è "Domino" che rimane ancor oggi l'ultimo singolo di successo nella carriera di Van
Tupelo Honey (1971)
Il titolo non tragga in inganno: non si tratta di un omaggio ad Elvis, nativo di Tupelo, Mississippi. Tupelo Honey è una ricercata qualità di miele, a cui Van paragona la sua dolce Janet. Tutto i testi, qua, vertono sullo stesso tema: miele ed amore. In quanto a "radiofonicità", questo è il seguito di Moondance, ma è un disco tutto diverso. E' un tipico prodotto del periodo, sulla scia dei successi di James Taylor e Carole King. Van si diverte a fare il cantante romantico, e ci riesce incantevolmente bene, circondato da un'orda di validi strumentisti. Il soul lascia lo spazio al country, gli arrangiamenti si sprecano, i coretti femminili non si risparmiano. Dal punto di vista della musicalità e della produzione, questo disco soddisfa ampiamente. Delle composizioni spicca solo l'iniziale "Wild Night", una melodia facile su un ritmo contagioso, con la quale Van dimostra la sua abilità nello scrivere pezzi da classifica e la sua incapacità di promuoverli adeguatamente. Il singolo, infatti, non entrò nelle top ten. Delle altre canzoni si fanno notare quelle più lunghe, organizzate come piccole suite.
La critica italiana ha, per sua tradizione, bersagliato di offese questo lavoro, molto oltre il suo unico demerito, che è quello di contenere troppo miele. Questo è un disco nessun appassionato di Van dovrebbe lasciarsi scappare.
Saint Dominic's Preview (1972)
Van è stato estremamente geloso della sua vita privata. Si sà che in quest'anno il suo matrimonio entrò in crisi e presto giunse al divorzio. Come tutti i libri su Van raccontano, i dolori d'amore lo fecero tornare quello di Astral Weeks. D'altronde certe composizioni e certe esecuzioni non le puoi costruire a tavolino, devono venire da sole. Dal '72 al '74 Van calerà sul mercato un poker di capolavori, di cui questo è il primo.
Tre lunghe composizioni, reminescenti quelle di Astral Weeks, dominano l'album. Rispetto a quel disco, il suono qui è più spoglio, poggiando su chitarre acustiche e piano. Questo ne diminuisce il carattere onirico e ne sottolinea quello drammatico. Il testo di "Listen to the Lion" è chiarissimo: l'autore, distrutto dalle pene d'amore, deve guardare nel profondo della sua anima, per ascoltare il leone che vi è racchiuso. Il leone gli dice che i suoi antenati lasciarono la Danimarca per incominciare una nuova vita in "Caledonia" e che lui, quale loro discendente, ha dentro di sŽ la forza per non lasciarsi abbattere dalle difficoltà della vita. Quanto ci impieghereste per dire queste quattro frasi? Van le centellina in ben dieci minuti. La performance vocale è letteralmente... ruggente! Con questa canzone Van smette di comporre con l'inconscio e smette di emulare Dylan. C'è sempre lo stream-of-consciousness, ma è diverso da prima. Prima erano i ricordi ad affiorare da soli, ora è la volontà che, lucidamente, esplora e guida la mente. Questo stile non sarà mi abbandonato, ed avremo tanti seguiti a questa canzone. Più spesso, al posto della storia dei progenitori, vi sarà la propria infanzia.
Nel brano "Saint Dominic's Preview" c'è un lunghissimo giro di parole e immagini prima di dire di aver visto, davanti ad una chiesa, la gente che marciava per la pace in Irlanda del Nord. Che io sappia, è l'unico brano da lui dedicato all'argomento. In "Almost Indipendent Day" si racconta invece di una serata felice passata in giro con la moglie. Se qualcuno legge il testo senza ascoltare il brano pensa che si tratti di una canzone serena e felice, perchè il racconto si svolge nel presente. Solo la musica e l'interpretazione fanno capire che si tratta del ricordo di un passato che non tornerà più. E' illuminante sapere come nacque la canzone. Squillò il telefono in casa Morrison e la centralinista disse che c'era una chiamata dall'Oregon da parte di un suo ex-compagno dei Them. Quando la telefonata fu passata, dall'altra parte non rispondeva nessuno. A Van vennero in mente i versi: "I can hear Them calling way from Oregon/ And it's almost Independence Day". Vien da ridere pensando al tempo perso da qualcuno nel tentativo di scoprire il significato nascosto delle canzoni!
Questo disco è l'esatto contrario del concept-album. E' una raccolta di canzoni eterogenee, registrate in momenti diversi, con stili e con musicisti diversi. Le capacità canore di Van danno prova di essersi affinate con passaggi di canto "scat" ultrarapido.
C'è da dire, a proposito della Caledonia, antico denominazione della Scozia, che Van dà questo nome alla sua orchestra accompagnatrice del periodo ed al suo nuovo studio di registrazione privato. Caledonia è anche il secondo nome della figlia Shana, del negozio di dischi dei genitori di Van...
Hard Nose the Highway (1973)
"Chiudi la porta, abbassa le luci e rilassati", dice un verso di questo disco e questo è il programma di tutta l'opera. L'atmosfera, oltre ad essere rilassata, è malinconca ed autunnale. Torna nell'organico Jeff Labes che cura parte degli arrangiamenti e trova spazio in eleganti assoli di piano. Van disponeva all'epoca di un gran numero di composizioni, tanto da pensare di rilasciare un doppio LP. In realtà nessuna di esse era un capolavoro assoluto, e alla fine non soltanto ci sarà un singolo LP, ma ci saranno due composizioni non sue a cui, evidentemente, Van doveva essere affezionato. Come accade in tutti gli album di Van Morrison gli arrangiamenti non sono mai sovraccarichi, anche qui se vi sono tantissimi accompagnatori. Nella iniziale "Snow in San Anselmo" c'è addirittura un coro sinfonico a dare un effetto inatteso ed affascinante. Nella finale "Purple Heater" c'è un nutrito accompagnamento d'archi che ricrea l'atmosfera di Astral Weeks. Gli stessi archi, uniti ai fiati, danno l'impressione di una orchestra jazz nella spiritosa "Bein' Green", ripresa dal progamma televisivo dei Muppets. "The Great Deception" accusa di ipocrisia John Lennon e Sly Stone. "Autumn Song" è il rovescio della medaglia di "Listen to the Lion". Qui si decantano le piccole gioie della quiete domestica.
Anche se non contiene canzoni di spicco, questo album si fa apprezzare per gli accompagnamenti e le esecuzioni convincenti e riesce appieno nel suo scopo di creare un'atmosfera raccolta e rilassata. Scott Thomas sostiene che la produzione di quest'album sia flaccida. Non posso dire dell'originale, in quanto io possiedo la versione rimasterizzata, che mi sembra fantastica.
It's Too Late to Stop Now (1974)
A dieci anni dal suo esordio discografico arriva il primo live, a cui ne son seguiti altri due, sempre rispettando la scadenza decennale. Se qualcuno compila la lista dei 10 migliori live di tutti i tempi e non include questo, due sono i casi: o non l'ha mai ascoltato o era meglio che stesse zitto. Vi è più di un motivo per cui questo album rifulge. Primo: il cantante è un vulcano in eruzione. Secondo: il cantante ha raggiunto il pieno della maturità tecnica e artistica. Terzo: la band di supporto è tanto articolata ed affiatata che non si potrebbe desiderare di meglio. Quarto: le diciotto composizioni son tutte valide.
Il titolo origina da una delle pratiche di Van nei suoi concerti: fa crescere in maniera orgiastica l'eccitazione, al cui culmine pronuncia la fatidica frase: "E' troppo tardi per fermarci ora". Invece subito dopo la canzone si interrompe di botto. Si può ascoltare tutto ciò in "Cyprus Avenue", drasticamente diversa dalla versione originaria su "Astral Weeks". I brani scelti vanno anche più indietro, comprendendo due hit dei Them e ben sei cover, mai registrate in studio. La Caledonia Soul Orchestra comprendeva undici elementi, cantante escluso: piano, batteria, chitarra, basso, sax, tromba, tre violini, una viola ed un violoncello. Le registrazioni risalgono all'estate del 1973, praticamente l'unico anno di vita della formazione. Ad un certo punto si era pensato di pubblicare un triplo album, ma alla fine si optò per un doppio. Le canzoni escluse sono ricomparse su bootleg. E' un vero peccato che non si sia provveduto a recuperarle per la riedizione su CD, perchè lo spazio per inserirle non mancava. In queste registrazioni si vede solo il lato più esuberante di Van Morrison. Non c'è traccia del cantautore intimista e mistico; c'è un gigante che domina con carisma la platea e la band.
Veedon Fleece (1974)
Tornato in Irlanda nel 1973 e suggestionato nel rivedere i luoghi della propria adolescenza, Van trova l'ispirazione per un album concept estremamente personale. Non vi sono note di copertina o interviste a spiegarlo, ma si capisce che le varie canzoni sono in un ordine preciso, con frasi che si ripetono da un brano al successivo, in modo da formare la storia di un ragazzo che dapprima sogna una vita fantastica, popolata da eroi e da poeti, poi parte deciso incontro alla vita reale come se andasse incontro ad una avventura (la ricerca di un immaginario vello di Veedon). Seguono le esperienze e le disillusioni. Alla fine c'è il ritorno al paese natio ed un amore che curerà le ferite. Ad accompagnare il cantante c'è una versione snellita della Caledonia Soul Orchestra. Il suono è curato, ma rarefatto, ricordando un po' tutti gli album precedenti. Infatti per ogni canzone c'è uno stile diverso, eppure l'opera conserva un carattere fortemente unitario. Rispetto ad Astral Weeks, cui quest'opera è stata paragonata, essa è molto più sfaccettata, più costruita e meno originale. L'accompagnamento strumentale è infatti semplice e tradizionalista, più ancora che nei due album in studio precedenti. I testi e le parti vocali sono estremamente personali. E' un disco che, pur non essendo musicalmente difficile, richiede un ascolto raccolto, al buio, per essere penetrato.
Prima che Veedon Fleece arrivasse nei negozi, era stato già ultimato ed annunciato il suo successore, dal nome "Mechanical Bliss" e dal tono opposto, gaio e spensierato. L'album non fu mai pubblicato.
Period of Transition (1977)
Dopo Veedon Fleece, Van ne ebbe abbastanza della musica e si ritirò dalle scene per quasi tre anni, per ritornare con l'album più breve della sua discografia. Lo devo ancora ascoltare.
Wavelenght (1978)
Into the Music (1979)
Con lo stesso titolo era uscita nel 1975 una biografia dell'artista. Il titolo giusto per l'album sarebbe stato "Into the Music Again", perchè esso segna il ritorno della voglia di far musica dopo la pausa triennale e due tentativi poco felici. La voglia di cantare è anche il ritorno a vivere, come indicano i titoli di alcune canzoni: "Bright Side of the Road", "You Make Me Feel So Free" e "And the Healing Has Begun", in cui ad essere malato era lo spirito e la medicina è, naturalmente, la musica. La voglia di vivere emerge dalla forza della performance canora, mai così convinta e trascinante ("Divertiamoci mentre possiamo/ Non vuoi aiutarmi a cantare questa canzone/ Dal limite scuro della via/ Al lato luminoso della strada").
Per produrre questo disco non si badò tanto alle spese, e possiamo ascoltare ottimi musicisti, fra ospiti e membri della nuova band. Innanzitutto arriva, dal giro di James Brown, il sassofonista Pee Wee Ellis, cui il precedente Schrorer non era degno neanche di lustrare le scarpe. Alla tromba il giovane Mark Isham, che negli anni successivi toccherà anche le tastiere. A suonare il violino e la viola c'è la splendida italiana Toni Marcus, il vero solista in questa occasione, che purtroppo non verrà più richiamata per gli album successivi. Si può notare come la batteria sia mixata ad un volume molto più alto che, per esempio, in Tupelo Honey: neanche Van è immune dalle mode. Gli elementi nuovi, che rimarrano a lungo, sono la musica celtica, in "Rolling Hills", e la religione, in "Full Force Gale" ("Sono stato risollevato dal Signore").
Con una prima facciata di canzoni veloci ed una seconda di canzoni lente, le nove canzoni (più una coda) mostrano praticamente tutte le facce, gli stili, gli atteggiamenti mentali, i trucchi ed il talento del cantante e dell'autore. Descrivere questa goduria di disco è inutile: va acquistato ad occhi chiusi.
Common One (1980)
Ci vuole davvero coraggio per fare uscire, dopo il successo di "Into the Music", un disco tanto anti-commerciale. Siamo di nuovo fuori dal rock, per approdare ad un improbabile tipo di sperimentazione, prossima alla musica leggera in quanto a strumentazione ed arrangiamenti, eppure opposta nello spirito. Al posto dell'unico violino del disco precedente, qui c'è una orchestra intera, condotta dal vecchio compare Jeff Labes. La registrazione fu eseguita in pochi giorni, con largo spazio per l'improvvisazione. Il pezzo forte, "Summertime in England", durava mezz'ora, ma la Polygram pensò bene di rieditarlo in metà tempo. Le liriche sembrano l'indice di un testo di letteratura inglese, in quanto citano a raffica nomi di poeti e di luoghi. E' un lungo momento di meditazione filosofica, come tutto il disco, d'altronde. Il verso finale "Can you feel the Silence?" sarà ripreso, undici anni dopo, nel momento culminante di "Hymns to the Silence". Qui non sarebbe fuori luogo la parafrasi: "Riesci ad ascoltare questo disco fino al termine?". La musica, infatti, per quanto impeccabile, sembra stiracchiata oltre i giusti limiti. "When Heart is Open", altri quindici minuti di meditazione senza sviluppo e senza melodia, è posta opportunamente in fondo. Se non riuscite a spegnere il giradischi vuol dire che vi siete addormentati. Se ascoltato un pezzo per volta, e con la giusta predisposizione d'animo, Common One diventa un disco a dir poco stupendo. Buona parte del merito và a Pee Wee Ellis, arrangiatore ed artefice di ispirati assoli.
Beautiful Vision (1982)
Nei primi anni ottanta la musica era pesantemente plastificata ed anche Van non fu immune dalla moda del momento. Ciononostante riuscì a sfornare un capolavoro che non è affatto invecchiato a venti anni di distanza. Il suono è diverso da qualsiasi cosa egli abbia fatto prima, nonchè personalissimo. C'è la rinuncia all'intero bagaglio di trucchi vocali, eppure la voce rimane espressiva, bella ed emozionante come sempre. I sintetizzatori dominano fra gli strumenti, con apprezzabili contributi di fiati e, soprattutto, chitarra elettrica. Il giovane Mark Isham passa sempre più dalla tromba al sintetizzatore ed acquista un ruolo di primo piano, anche come arrangiatore e, verosimilmente, come contagiatore nei confronti del leader. Il brano "Scandinavia", in coda all'album, è il primo pezzo strumentale della carriera di Van, che nell'occasione si cimenta al pianoforte. I testi sono estremamente semplici, con descrizioni di scale che salgono in paradiso ed illuminazioni simili. La copertina rende bene l'idea. Nelle note dell'album è spiegato che un paio di liriche sono state ispirate da un racconto di Alice Bailey e ben tre sono state scritte in collaborazione con un vecchio amico di nome Hugh Murphy. Le cose saranno ancora più chiare sulla copertina dell'album successivo, che recherà una dedica al fondatore di Scientology, Ron Hubbard. Le composizioni su "Beautiful Vision" sono fra le migliori dell' intero repertorio morrisoniano ed intonate al sound del disco. Un paio di esse raffigurano con efficacia i ricordi dell'infanzia a Belfast. Nell'allegra "Cleaning Windows" si racconta di uno dei pochi mestieri che Van ha fatto al di fuori dell'ambito musicale.
Inarticulate Speech of the Heart (1983)
Per fortuna questo è l'ultimo album in studio in cui compare Mark Isham, sempre più lanciato ad emulare Brian Eno e sempre meno impegnato a suonare la tromba. Per quanto l'album sia piacevole, sembra fatto con gli scarti del precedente. Troppi brani strumentali ed un suono che vorrebbe essere levigato e pulito ma rischia di cadere nella volgarità. L'inizio è scioccante, con i bassi pompati tanto da far pensare di aver preso per sbaglio un disco di Barry White. La voce emoziona come sempre, anche quando non canta ma recita, vedasi l'introduzione di "Rave on, John Donne". Per chi riesca, non è difficile, ad abituarsi al suono ammorbidito e plastificato, quest'album può rappresentare un piacevole diversivo nel catalogo dell'irlandese, o comunque un aromatico sedativo. Non mancano le belle canzoni, come "The Street Only Knew Your Name" che cerca di ripetere la "Cleaning Windows" dell'album precedente, ma nessuna è essenziale.
Live at the Grand Opera House Belfast (1984)
Non contiene nè inediti nè cover, ma solo brani tratti dai precedenti quattro LP.
A Sense of Wonder (1985)
Abituato a cambiare formazione per ogni disco, Van arriva al punto di farne uno in cui è in parte accompagnato dalla sua band abituale ed in altri momenti da una cooperativa di musica popolare irlandese, i Moving Hearts, di breve vita ma di notevole perizia. Questa alternanza, come anche la presenza di ben tre cover, aumentano le attrattive di un album che si mantiene molto a galla con il mestiere e poco con l'ispirazione. Paradossalmente il tema dell'intero lavoro è quello dell'artista alle prese con il processo creativo. La sostanza è invece un sopraffino artigianato. Le melodie sono scontate e sembrano una minestra riscaldata. Il sound è in prima approssimazione quello di Beautiful Vision. Al posto dei sintetizzatori c'è un organo che ricorda il Ray Charles più morbido. Gli arrangiamenti sono di facile presa, eppure estremamente raffinati: il risultato finale è vaporoso, etereo. E' nota la capacità di arrangiatore di Van Morrison: non uno intervento di troppo ma neanche uno strumento di meno; il suono è sempre ricco ma mai sovrabbondante. Il ruolo di spalla è assunto questa volta dalle coriste, i cui interventi suonano chissà perchè enfatici. A dire il vero, tutti gli interventi solisti, in questo disco, suonano enfatici.
La copertina, contrariamente alle abitudini, è corredata dalle liriche, che è necessario leggere. "Malinconia alla Rimbaud/ Spero di raggiungere il mio scopo/ Tormento alla Rimbaud, sai quanto è difficile a volte./ Mi ha mostrato ogni tipo di forme e colori/ Mi ha rivelato diversi sentieri per lo stesso tragitto/ Mi ha dato indicazioni chiarissime/ Quando mi trovavo nella notte scura dell'anima./ Malinconia all Rimbaud/ Vorrei saper tornare a scrivere/ Tormento alla Rimbaud, sai quanto è difficile/ Quanto è difficile continuare." Purtroppo la musica, nei primi due brani, non è all'altezza del testo. E' perfettamente logico, perchè il testo narra di un artista bloccato davanti al foglio bianco, in attesa di una ispirazione che non arriva. Il disco incomincia, lentamente, a prender quota solo al terzo brano (Evening Meditation), uno strumentale col coro muto di Van. Il resto del disco è finalmente appagante, sia per i brani originali, fra i quali spiccano "The Master's Eyes" e la title-track, che per le cover. Van aveva musicato un testo di Yates, ma gli eredi del poeta irlandese si opposero all'uso dei versi. Van fu costretto a cancellare il brano già pronto e ripiegò su una composizione di Mose Allison. Si tratta di un rhythm and blues molto anni '60 che non lega per nulla col resto, ma la cosa non dispiace. A farla breve, questo album è tanto sfaccettato che ogni brano necessiterebbe una descrizione a parte. Ce n'è abbastanza per interessare i fan ed anche per crearne di nuovi. La conclusione felice: "A New Kind of Man".
No Guru, No Method, No Teacher (1986)
Il discorso filosofico-religioso-trascendentale iniziato con gli anni '80 si conclude nella serenità di un'opera dal titolo lungo e curioso. Nella band quasi completamente rinnovata ritroviamo due vecchie conoscenze come Jeff Labes e John Platania ed un'ottima Kate St. John (oboe e corno inglese) che si rivela adattissima per ricreare le atmosfere celtiche/oniriche sempre più frequenti. Se, anche al primo ascolto, sembra di conoscere già questo disco, il motivo è semplice: di tutta la produzione, questo esemplare è quello che più si avvicina ad "Astral Weeks". Simili la struttura dei pezzi e la strumentazione acustica. Di diverso ci sono la brevità dei brani, un pizzico di varietà in più, maggior cura degli arrangiamenti e assenza di sperimentazioni. Van canta con grande naturalezza e (troppa) scioltezza, evitando le strade più difficili. Si ha solo una pallida idea della bravura dimostrata altrove. I testi sono per lo più vaghi, con argomenti che oscillano fra la polemica stizzita con chi lo critica (ma come gli si può credere quando canta "Tu hai soldi in banca/Io non ne ho affatto"?) e la meditazione come fonte di felicità. L'amore è puramente platonico, come nella canzone culminante, "In the Garden". La casa discografica fece uscire un album-intervista, in cui veniva spiegata appunto questa canzone, dalle parole dell'autore, che qui traduco.
"C'è una canzone sull'album chiamata "In the Garden" dove in realtà io ti porto attraverso un programma di meditazione. Da circa metà della canzone sino al termine. Ti porto attraverso un preciso programma di meditazione. Che è una specie di meditazione trascendentale. Non è meditaziona trascendentale, sia chiaro. [...] Se ascolti la cosa attentamente, dovresti aver raggiunto una forma di tranquillità prima di essere alla fine. Accade quando dico "E mi rivolsi a te e dissi: 'Nessun Guru, Nessun Metodo, Nessun Maestro. Solo tu ed io e la natura, ed il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo'. Solo la frase intera conserva tutto il senso. E volevamo metterla così come titolo dell'album. Ma abbiamo capito che sarebbe stata troppo lunga".
Le restanti canzoni sono solo di poco inferiori, cosicchè di questo lungo album non c'è proprio nulla da scartare.
Poetic Champions Compose (1987)
Il disco si apre con la sorpresa di Van che suona da solista il sax contralto in un brano strumentale. Tutti gli assoli di sassofono del disco sono eseguiti dal leader, che sul retro di copertina si atteggia a one-man-band. D'ora innanzi le sorprese discografiche saranno tutte così: di piccolo calibro. Terminate le sperimentazioni, la musica di Van Morrison diventerà più tradizionale, muovendosi fra le formule più collaudate di blues, jazz e musica irlandese. Gli stravolgimenti di formazione saranno all'ordine del giorno. Rispetto al precedente, questo album presenta maggiore varietà ed è cantato meglio. Mentre in quello si ammirava la compattezza dell'insieme, qui piacciono le singole composizioni. Il clima è più rilassato, meno serio, vicino al puro intrattenimento. Mentre "No Guru..." fungeva da riassunto per la parte precedente della carriera, questo "Poetic..." indica la strada che sarà seguita in futuro. Entrambi sono prettamente personali ed assolutamente immuni dalle mode. Questo secondo risulta registrato in maniera superlativa e rappresenta, da questo punto di vista, probabilmente il vertice dell'intera discografia. Peccato per qualche pezzo troppo scontato (specie "Give Me My Rapture", come melodia e come testo). Altrimenti è difficile trovare difetti in un'opera che rimane imprescindibile per tutti gli estimatori dell'autore.
Irish Heartbeat (1988)
Per la prima volta Van rilascia un album insieme ad un altro artista. Questa volta si tratta del gruppo di folk irlandese dei Chieftains. Si tratta per l'appunto di un disco di musica tradizionale; non contiene nuove composizioni.
Avalon Sunset (1989)
Enlightenment (1990)
Hymns to the Silence (1991)
Perchè l'unico album doppio (in studio) a questo punto della carriera? Perchè non ha eliminato qualche pezzo noioso ed inutile e rilasciato un unico CD di 74 minuti? La risposta che io ho trovato è numerologica. I 21 brani di questo doppio sono divisibili in tre portate, ciascuna composta di 7 pezzi. Io ho usato la portate, qualcuno potrebbe pensare a inferno, purgatorio e paradiso. Si tratterebbe insomma di un concept sotto mentite spoglie. Passo dunque a descrivere le tre portate.
Antipasto salato: la confessione. La musica è asciutta e nervosa. Si inizia con "Professional Jealousy" dove Van sveste i panni del mistico e si mette alla pari di tutti i suoi colleghi ("La gelosia professionale non fà eccezioni/ Può capitare a chiunque, in qualsiasi momento/ L'unica condizione richiesta è: sapere cosa serve/ e consegnarlo, quello che serve con puntualità"). Segue "I'm not Feeling It Anymore"; Van non era mai stato tanto esplicito ("Ho fatto finta per tutto il tempo/ Di dare a tutti quello che volevano/ Ed ho perso la mia pace mentale/ Quello che ho sempre voluto era solo essere me stesso..."). "Ordinary Life" assomiglia a quei tormentoni blues coi quali Dylan affligge con regolarità i suoi fan. Per fortuna questo finisce subito. Nel testo Van si spoglia del proprio mito e del proprio misticismo: "Portami giù sulla terra/ mantieni i miei piedi per terra". In "Some Peace of Mind" si butta giù un'intera carriera: "Mi vedi sul palcoscenico, a fare il mio lavoro/ Imparo a farlo bene, continuo a cantare/ Ma a volte sento tanto la solitudine là sopra/ Perchè sei sulla strada e non vai da nessuna parte/ Perchè sono solo un uomo, e non ho piani...". In "So complicated" la polemica continua con swing ("Voglio solo soffiare nel mio strumento..."). Il dialogo con il fan si riallaccia con la cover di "I Can't Stop Loving You". Come nei brani precedenti, l'esecuzione è tanto fredda e impersonale da far solo rimpiangere l'originale di Ray Charles. Questa prima parte si conclude con la festosa fisarmonica di "Why Must I Always Explain?" ("Devo sempre ripetere alla gente cose che non hanno voglia di capire...").
Portata principale: Riflessione e Preghiera. La musica è solenne. Si tratta delle tipiche lunghe e tormentate riflessioni inaugurate da "Listen to the Lion" diciannove anni prima. Questa volta il coraggio non basta più e l'autore invoca Dio. Van vuole disperatamente tornare indietro al tempo dell'infanzia (Take Me Back), quando tutto sembrava buono e giusto e lui viveva nella luce. Alcune canzoni di questo mazzo sono degli veri e propri inni da chiesa anglicana (See Me Through, By His Grace), una è gioiosa ed ottimista (All Saints Day). La pace viene finalmente trovata nel lungo brano che dà il titolo all'album, cui segue, quale momento culminante, il lungo recitativo di "On Hyndforf Street" con il solo synth di sottofondo. Non c'è più musica. Van è riuscito finalmente a tornare nella strada della sua infanzia ("Riesci a sentire il silenzio?").
Dessert: Amore. La musica è celestiale ed ogni pezzo ha un suo stile e gode di un arrangiamento particolare. La prima di queste sette canzoni, Village Idiot, è stata inserita fra l'antipasto e la portata principale. Forse il significato è che, per farsi venire la voglia di guarire dalla propria malattia (la gelosia professionale), Van doveva prima invidiare l'idiota ("Deve conoscere qualcosa/Però non lo dice"). Le cinque canzoni d'amore che seguono "On Hyndford Street" collegano l'amore per la propria donna con l'amore per Dio ("Ringrazio Dio per avermi mandato te"). Nella conclusiva "I Need Your Kind of Loving" ogni riferimento religioso svanirà: "Baby, ho bisogno del tuo tipo di amore/ tu sai che nessun altro lo farà". Nell'ultimo verso il protagonista rimane solo: "Centralinista, centralinista/ passami la mia bimba adesso".
In questa ultimo terzo dell'opera il cantante si scioglie completamente e finalmente c'è spazio solo per la spensieratezza. Il contrasto fra le tre parti, più che nelle parole, sta nell' interpretazione musicale. Dopo tutto quello che ha detto l'autore di se stesso all'inizio, alla fine gioca a stupire. Sembra che dica: "guardate come ho imparato bene il mio mestiere: riesco a farvi commuovere come e quando voglio". Mi piace cadere in questo inganno; questa parte del disco l'ho ormai imparata a memoria. Rimane il dubbio se la confessione iniziale fosse la verità definitiva o solo il racconto di un momento di disperazione. Probabilmente entrambe le cose. Il significato di quelle sparate è che per Van la musica è una fonte di sopravvivenza ed il mestiere della su vita. Quelle rare volte che è ispirato egli può creare poesia, ma se e quando venga l'ispirazione non dipende nè da noi nè da lui.
Malgrado i tanti stili toccati, la strumentazione è insolitamente ridotta ed il suono insolitamente spoglio. Van suona chitarra elettrica ed armonica, in metà dei pezzi compare il versatile organo di Georgie Fame, in alcuni il giocoso sax di Candy Dulfer, in un paio i Chieftains.
Too Long in Exile (1993)
A Night in San Francisco (1994)
Per il suo terzo disco dal vivo Van organizza due serate vicino casa, a San Francisco per l'appunto. Lo spettacolo è opulento. Innanzitutto, in ordine sparso, andiamo a conoscere i musicisti, molti dei quali ospiti. Shana Morrison, la figlia, canta in un brano. Il giovane cantante di Belfast Brian Kennedy a volte duetta ed a volte prende il ruolo di solista. Georgie Fame, cantante jazz con una lunga carriera alle spalle, suona l'organo e canta in un brano. L'avvenente olandesina Candy Dulfer suona il sax contralto, mentre Kate St. John si alterna fra tenore, soprano ed oboe. Il vecchio bluesman John lee Hooker partecipa al canto nella conclusiva Gloria. Un altro vecchio cantante di colore, Jimmy Witherspoon canta in ben quattro pezzi. Purtroppo era al termine della carriera (reduce da un'operazione per un tumore alla gola). Junior Wells suona l'armonica, Ronnie Johnson e James Hunter la chitarra, Teena Lyle il vibrafono, John Savannah le tastiere, Haji Ahkba il flicorno, Nicky Scott il basso e Geoff Dunn alla batteria. Tutti hanno modo di dimostrare la loro bravura, ci sono tanti assoli che sembra una gara a chi osa di più, in un clima di festa ed amicizia.
Il doppio CD dura quasi quanto quattro LP. Contare il numero dei brani è una impresa perchè non soltanto le medley abbondano, ma ogni tanto una nuova canzone viene citata ed abbandonata, senza lasciare traccia nelle note di copertina. Il retro della stessa reca la scritta "ballads blues soul funk & jazz" per dare un'idea della varietà che c'è dentro la confezione. Non mancano i brani alla Van Morrison e le apoteosi che culminano con la storica frase: "It's Too Late To Stop Now". Insomma, è proprio impossibile resistere ad un disco del genere. Non ha fatto la storia, ma sospetto che se ne parlerà ancora fra cent'anni.
Vi sono due buoni motivi per ritenere questo album inferiore rispetto a "It's To Late to Stop Now". Primo: la voce e l'energia di Van non sono più quelle di un tempo. Secondo: mentre nel primo live si avvertiva una band unita e consapevole di creare qualcosa di importante, qui abbiamo degli ottimi intrattenitori che si divertono a portare ognuno il proprio contributo, a volte narcisistico. Entrambe queste cose bisognava darle per scontate, quindi questo splendido live ha sicuramente centrato il proprio obbiettivo.
Days Like This (1995)
Non so se per questo disco si addicano le etichette "easy-listening" o "smooth-jazz", certo esse sono più indicate di "rock". La parola che meglio si adatta è "facile". Non solo il disco è fatto per piacere ad un vasto pubblico; i musicisti partecipanti seguono sempre la strada più semplice, specie Van che canta con una voce roca e sfatta. In una simile situazione emerge l' affiatamento e la musicalità del gruppo. Questa musica possiede uno swing perfetto e scivola via con gran piacere dall'inizio alla fine, senza cadute, anche se nessuna delle composizioni si avvia a diventare un classico. Vi sono due cover e uno degli ormai classici pezzi lunghi in cui Van si lascia andare ai ricordi di infanzia (Ancient Highways). L'album segna il ritorno di Pee Wee Ellis a guidare ed arrangiare una sezione di ben tre sassofoni, che diventano quattro nel brano 'Days Like This', quando anche Van si cimenta con il contralto. Nelle parti vocali intervengono spesso la figlia Shana e Brian Kennedy.
How Long Has This Been Going On (1996)
A questo punto della carriera di Van si infittiscono sempre più le parentesi, o progetti speciali, dei quali questo è il secondo, dopo l'album con i Chieftains. Per realizzare probabilmente un antico desiderio, si tratta di un disco di puro jazz, pubblicato su una etichetta storica del genere (la Verve), in un locale simbolo (il Ronnie Scott's) con, al posto della solita band, musicisti della scena jazz inglese. L'album è attribuito a "Van Morrison with George Fame & friends'. La registrazione avviene dal vivo, ma senza pubblico presente nel club. Questa è il modo di lavorare preferito da Van, e a cui anche i sideman sono ovviamente abituati. Si ha l'impressione però che il gruppo avesse bisogno di più tempo per affiatarsi e per curare gli arrangiamenti, che spesso non convincono. Non è il caso delle piacevoli "Who Can I turn to?" e "Moondance" (a proposito, non vi sono composizioni nuove). La performance complessiva di Van è impeccabile. I suoi compagni, invece, sembrano bloccati. Eppure si tratta di gente abituta a svolgere i propri assoli in ogni situazione. Si sa che Van è un testardo pignolo che vuole averla sempre vinta ed è facile immaginare la situazione che si è potuta creare...
Tell Me Something: The Songs of Mose Allison (1997)
E' album tributo vede Van cantare in metà dei brani. Come il precedente esce su etichetta Verve e può essere considerato un album di jazz. L'anziano Mose Allison, che Van riconosce come uno dei maggiori songwriter del secolo, partecipa in due brani. Egli è il tipico "musicista per musicisti", sconosciuto al grande pubblico. Da tempo Van voleva realizzare quest'album, ma per farlo voleva accanto a sè dei musicisti che, come lui, avessero una lunga dimestichezza con le composizioni. Si decise pertanto a farlo con Georgie Fame e Ben Sidran. Per conciliare gli impegni di tutti, il disco fu quasi tutto registrato in un sol giorno senza prove, alla "buona la prima".
The Healing Game (1997)
Questo costituisce il seguito naturale di "Days Like This". Manca Shana e sempre più spazio viene occupato da Brian Kennedy, che accompagna con la sua voce tutti i brani. Nella prima metà si respira l'atmosfera di "Beautiful Vision". Le composizioni sono elaborate, con spazio per orchestrazioni e assoli di sassofoni. Il tutto è molto più rock che non su "Days Like These", con la batteria in bella evidenza. "Piper at the gates of Dawn" è invece un brano acustico con Van alla chitarra e l'ospite Paddy Maloney (Chieftains) che suona le "uilleann pipes". Van non ci prova neanche a cantare in stile 'Astral Weeks'. Ad una prima metà di canzoni serie e vibranti ("Oh the mud splattered victims..." è il primo verso del disco) segue una serie di pezzi di routine che si trascina, senza ispirazione e con arrangiamenti banali, fino alla fine. Forse la cosa è voluta, per dare un'impressione di divertimento, di casuale ritrovo fra amici, ma non sembra funzionare. Nei due pezzi più seri della seconda parte, "Sometimes We Cry" e "The Healing Game", a parte gli arrangiamenti non all'altezza, Van arriva senza voce alla fine dei brani. Con la mania di far durare i CD un'ora, anzichè i classici 40 minuti, queste cose accadono spesso. Nello specifico era forse il caso di rimandare la session incriminata. In una intervista dell'epoca, alla domanda se fosse un perfezionista, Van rispose: "Un tempo lo ero di più". Peccato.
The Philosopher's Stone (1998)
A lungo annunciato anche nel titolo, e nella logica del mercato discografico dei '90, giunge infine un doppio CD (che dura quanto 4 LP) di brani inediti d'archivio. Sono 30 pezzi registrati fra il 1971 ed il 1987 ma non inclusi nei rispettivi album del periodo. La maggior parte dei brani proviene dal periodo d'oro 72-74. Solo in qualche caso si tratta di versioni alternative, principalmente sono composizioni inedite o rare. Rispetto ai "Bang Masters" le qualità sonora e musicale sono nettamente superiori. Sono brani prodotti direttamente dall'autore con le migliori tecnologie dell'epoca. Mentre altre operazioni analoghe, compilate per altri musicisti, hanno solo valore storico-documentaristico, oppure sono solo lussuose confezioni regalo, questa serie di canzoni si offre principalmente al piacere dell'ascolto. A volte Van si mantiene fedele al suo stile, altre volte si diverte a deviare, e ciò contribuisce alla varietà ed alla gradevolezza dell'insieme. Non si ha, insomma, l'impressione di rovistare fra la spazzatura. Ancora una volta, Van rilascia un disco che stupisce.
Come la logica di una simile operazione richiede, vengono riportati testi, date di registrazione e credits di ogni singolo brano. Tutti sono stati rimixati per l'occasione da un esperto analogista. Ragion per cui la compilation non sembra tale, piuttosto sembra un nuovo album. Sono attesi altri volumi della stessa serie, perchè di materiale inedito ne rimane ancora tantissimo.
Back On Top (1999)
Contiene la canzone "Philosophers Stone", che non si trova nell'album quasi omonimo. "...il mio lavoro è quello di tramutare il piombo in oro...".
The Skiffle Sessions - Live in Belfast (2000)
E' stato registrato dal vivo nel corso di una tournee con Lonnie Donegan and Chris Barber, due miti di gioventù.
You Win Again (2000)
Immagino che Van volesse duettare con Jerry Lee Lewis, ma si è dovuto accontentare della sorellina Linda Gail, che prima (e dopo) di questo disco era (e rimane) conosciuta nell'ambito limitatissimo del rock'n'roll revival. Vi è una composizione nuova.